Riparte oggi il processo sull’omicidio di Cristina Mazzotti, sequestrata e uccisa a 18 anni nel 1975. Fu il primo caso di sequestro della ‘ndrangheta al Nord. A 48 anni dall’assassinio quattro uomini si ritrovano in tribunale, a Milano: per l’accusa sono legati alla mafia calabrese. Sulla vicenda, alla luce dell’inizio del nuovo processo, ha realizzato un approfondimento Le Monde, che ha ricostruito il caso. Uno degli imputati è Demetrio Latella, già condannato per omicidio e poi rilasciato in libertà vigilata: da allora ha mantenuto un basso profilo come giardiniere. Giuseppe Calabro, chiamato u Dutturicchiu (“il piccolo medico”) per i suoi studi in medicina, è ritenuto un noto spacciatore di droga. Antonio Talia sarebbe vicino ai clan di Africo, in Calabria, mentre Giuseppe Morabito, il più anziano del gruppo, vive da molti anni nel nord della Lombardia. Tutti e quattro, di età compresa tra i 69 e i 78 anni, rischiano l’ergastolo perché considerati responsabili del rapimento e dell’omicidio della 18enne lituana, avvenuto sul lago di Como.
All’epoca la ‘ndrangheta usava i riscatti dei rapimenti per accumulare denaro e al tempo stesso incutere timore, radicandosi nel territorio. La scelta di Cristina Mazzotti non fu casuale: il padre era un ricco commerciante di cereali che viaggiava molto in Argentina. Per il rapimento della ragazza fu chiesto un riscatto di 5 miliardi di lire. Una somma impossibile da raccogliere anche per quell’imprenditore. I rapitori scesero poi a un miliardo di lire, quindi Elio Mazzotti vendette tutti i suoi beni, accese prestiti e ipotecò la sua casa per raccogliere il denaro. Eppure, Cristina non fu liberata. Anzi, i rapitori smisero di rispondere e la famiglia non ebbe più notizie della ragazza. Il 1° settembre del 1975, dopo la segnalazione di un sospetto, i carabinieri trovarono sotto un cumulo di rifiuti il cadavere scheletrico della ragazza. Per la polizia scientifica, la giovane, affamata e tossicodipendente, era morta un mese e mezzo prima, prima della consegna del riscatto, col corpo compromesso in un rifugio sotterraneo che era diventato praticamente la sua tomba.
OMICIDIO CRISTINA MAZZOTTI: DUE SVOLTE
Quando il padre di Cristina Mazzotti morì, il 5 aprile dell’anno dopo, l’inchiesta era quasi chiusa. Dalla segnalazione di un banchiere svizzero, che aveva notato un pagamento sospetto di denaro per il riscatto, si arriva a Libero Ballinari, contrabbandiere noto alla polizia di Milano. Quando venne arrestato, fornì i nomi di diversi complici dell’operazione. Nel 1977 dodici uomini e una donna furono condannati, otto di loro all’ergastolo. Ma gli organizzatori non furono presi, erano scomparsi. La famiglia di Cristina Mazzotti dovette accontentarsi di questo verdetto in contumacia, vivendo con la certezza che gli organizzatori del rapimento erano liberi, così come i soldi del riscatto: quasi il 90% sparì nel nulla.
Il caso è stato rilanciato nel novembre 2006 per un’impronta digitale, quella del palmo di una mano destra, rinvenuta all’epoca sulla Mini, e che combaciava col database del sistema automatizzato di identificazione delle impronte digitale che era stato appena inaugurato. La pista portò a Demetrio Latella, killer della ‘ndrangheta con un lungo curriculum criminale che confessò di essere coinvolto e fece i nomi di altri tre ‘ndranghetisti, tra cui Calabro e Tania. Si aprì così la pista mafiosa. Eppure, il caso si arenò per un po’, per cadere in prescrizione nel 2012. Tre anni dopo una nuova legge cambiò la situazione. I reati puniti con l’ergastolo, come nel caso di Cristina Mazzotti, non sono soggetti a prescrizione.
PERCHÉ CASO MAZZOTTI RISCHIA DI RESTARE UN MISTERO
Sulla base di diversi elementi, la procura di Milano il 9 novembre 2022 ha chiuso le indagini. Nell’ordinanza di rinvio a giudizio è scritto che i quattro imputati «hanno partecipato attivamente all’esecuzione del sequestro». Tre di loro sono sospettati di aver partecipato direttamente, mentre Morabito, il cui ruolo non è ancora chiaro, è sospettato di essere stato uno degli organizzatori. La famiglia Mazzotti, comunque, ha accolto con moderazione la notizia del nuovo processo. Stando a quanto riportato da Le Monde, per gli inquirenti, le speranze di mettere la storia della ‘ndrangheta sotto il microscopio della vicenda Mazzotti restano scarse.
Peraltro, la strategia difensiva degli imputati è già fedele ai precetti di omertà dell’organizzazione. Infatti, dopo aver rivendicato il diritto al silenzio durante le udienze, due di loro hanno chiesto di essere processati con il rito abbreviato, una procedura accelerata e semplificata che consente di svolgere le udienze a porte chiuse e garantisce anche che i dibattimenti si concentrino esclusivamente sul fascicolo, senza il rischio che nuove testimonianze rompano 48 anni di silenzio. Per questo motivo, appare davvero complicato riuscire a fare definitiva chiarezza sul caso Mazzotti.