“Il desiderio assomiglia ad un esilio permanente, ad un’erranza inquieta che non può mai trovare l’appagamento che pure ricerca affannosamente” scrive lo studioso, psicologo, scrittore Massimo Recalcati nel suo libro Ritratti del desiderio.
Il desiderio è quella parte costituente il nostro essere umano, ma che negli ultimi decenni si è sfaldato in un desiderio come possesso, come voglia di tutto, come ben ha indotto la mentalità consumistica radicata nella nostra società da lungo tempo: “Voglio il mondo e lo voglio adesso” dicevano i manifestanti francesi nel 68. L’impossibilità di giungere a questo ha scatenato nell’individuo una frustrazione che ha pochi paragoni nella storia dell’umanità, una frustrazione che dà origine a una violenza che appare inconcepibile. In ogni ambito, quello familiare in primis, tra giovanissimi, nell’ambiente lavorativo. “Il godimento che rende vivibile la vita, il godimento come effetto del potenziamento della vita non è mai il godimento incestuoso, non è mai il godimento del tutto, ma è il godimento che si può raggiungere solo a partire dall’impossibilità dell’incesto, ovvero dall’impossibilità di avere tutto, godere di tutto, sapere tutto, essere tutto” dice ancora Recalcati.
Solo superando quell’Io che genera mostri, scrive ancora, “si arriva a concepire il desiderio come esperienza di un’alterità”. Il desiderio rompe l’unità tra soggetto desiderante e oggetto desiderato e impone un dominio del desiderato mai appagato. Il desiderare può così trasformarsi in una costrizione che impone una continua soddisfazione, mai pienamente realizzabile. Lo vediamo nella disperazione e nel nichilismo che attanagliano la nostra società. Ma il desiderio autentico ha bisogno di confrontarsi con il principio di realtà per trasformarsi in bisogno da soddisfare con modalità che tengano conto di ciò che è fattibile. Altrimenti esigendo un riconoscimento assoluto cercherà di imporsi senza tener conto del rapporto con l’Altro: “Io desidero, io voglio”. “L’altro” scrive ancora Recalcati “non riesce a rispondere alle mie eccessive aspettative di accudimento (risposta dell’altro); avverto tristezza e senso di abbandono (reazione del sé alla risposta dell’altro); sono sbagliato, non amabile (rappresentazione del sé)”.
Ecco allora che la frase terribile di Antonio De Marco, l’assassino di Daniele De Santis e Eleonora Manta, assume il volto di questo delirio di frustrazione e allo stesso tempo mancanza di un desiderio sano e realistico: “Li ho uccisi perché ero invidioso della loro felicità”. Come ha sottolineato giustamente Federico Pichetto nel suo articolo, “il desiderio di una possibilità e la sensazione di non averla. Vedere quella possibilità in De Santis e Manta ha riaperto tutto l’abisso che abitava Antonio e lo ha consegnato, mani e piedi, al torbido spirito della rivendicazione e della brutalità”. È il desiderio invidioso (Recalcati: “L’invidia non è mai invidia per qualcosa, per certe proprietà o qualità dell’individuo. Al fondo del sentimento invidioso è piuttosto la vita dell’Altro, la pienezza, la ricchezza, l’alterità dell’altro. Per questa ragione Lacan ha potuto affermare che il vero oggetto dell’invidia è la vita in quanto tale, che l’invidia è sempre, alla sua radice, invidia della vita), che assume un carattere infantile, si manifesta strutturalmente come desiderio dell’oggetto desiderato dell’altro bambino” dice ancora Recalcati.
Tutti abbiamo presente quel meccanismo nel bambino che vuole a ogni costo il giocattolo che sta usando l’altro bambino vicino a lui e fa di tutto, anche con violenza, per averlo. Ma se l’altro bambino abbandona il giocattolo e se ne va a prenderne un altro, nel primo bambino, quello invidioso, scatterà la rinuncia al giocattolo prima voluto così tanto perché quello che gli interessava veramente era la felicità che il suo amichetto mostrava. “Il desiderio dell’Altrove che trasferisce l’illusione di salvezza sempre su un nuovo oggetto senza però impedire la riproduzione fatale della stessa delusione una volta che l’oggetto viene posseduto” (Recalcati). Quello che c’è non è mai sufficiente, non è mai abbastanza e il desiderio si consuma in se stesso. E, peggio, nella distruzione tramite omicidio, di chi ci appare più felice di noi.
È in questa ottica deformante che viviamo, quando la posizione umana giusta, dice Recalcati, non è riconoscibile: “Il desiderio è domanda di riconoscimento e la sua soddisfazione simbolica è tutta nell’ottenere il riconoscimento di questa domanda. Desiderare significa volersi sentire desiderati, voler essere riconosciuti dall’Altro, significa voler avere un valore per l’Altro. Il desiderio come desiderio dell’Altro mostra che il desiderio umano ha una struttura relazionale. Esso proviene dall’Altro e si dirige verso l’Altro. Non esiste desiderio senza l’Altro. Il circuito del desiderio passa necessariamente dall’Altro perché il desiderio non può bastare a se stesso”. De Marco ha distrutto non solo le vite dei due amici ma ha distrutto il suo desiderio uccidendo l’Altro. E allora? Diceva lo psicanalista Lacan: “L’amore è ciò che mantiene convergenti il desiderio e il godimento”.