Forse ci vorrebbe un libro per raccontare il mistero che si cela dietro la rabbia con cui il ventunenne Antonio De Marco ha ucciso Daniele De Santis ed Eleonora Manta. Il duplice omicidio di Lecce, infatti, non solo era premeditato, ma prevedeva la tortura e aveva come movente l’insopportabile felicità della coppia con cui De Marco aveva convissuto come inquilino per alcuni periodi di tempo.
Ad aumentare l’incomprensibile delitto – così lo definiscono gli inquirenti della procura pugliese – c’è poi il fatto che l’assassino aveva scelto per il proprio futuro la strada dell’infermiere, un mestiere che esige una certa capacità di empatia e di pietà, elementi totalmente assenti nelle trentacinque coltellate che hanno portato a termine l’irrazionale intento omicida e che rendono complesso ogni commento e ogni tentativo di spiegazione.
Tuttavia, anche senza ricorrere ad un intero libro, tre fotogrammi possono contribuire a riconnettere la terribile strage con l’esistenza di ciascuno.
Il primo fotogramma è il compiacimento di Antonio nel vedere e nel sentire la morte dell’altro: in un mondo in cui niente è nostro la violenza si presenta come la scorciatoia più semplice per riprendere il controllo sulla vita, per rimettere le cose a posto. I nostri ragazzi, perché Antonio è un nostro ragazzo, desiderano fortissimamente “rimettere le cose a posto”, riattaccare i cocci delle loro famiglie, delle ingiustizie subite, dei fallimenti e dei tradimenti percepiti o presunti.
Questo apre la strada ad un secondo fotogramma, quello del dolore che genera la rabbia, un dolore che affonda le sue radici nel male subìto, in quel male che troppe volte illude gli uomini di essere in credito verso la vita, di avere dei diritti aggiuntivi per aver sofferto, per non essere stati compresi, per aver fallito pur avendocela messa tutta.
Si arriva dunque al terzo fotogramma di questa vicenda: il desiderio di una possibilità e la sensazione di non averla. Vedere quella possibilità in De Santis e Manta ha riaperto tutto l’abisso che abitava Antonio e lo ha consegnato, mani e piedi, al torbido spirito della rivendicazione e della brutalità.
È sufficiente questo per capire quanto è accaduto? No di certo. Occorrerebbe anche parlare di male radicale, di peccato originale, di follia, di meschinità, di miseria, ma sarebbe un modo elegante per allontanare quella scelleratezza da noi, dal nostro cuore, dalla stessa nostra possibilità di compierla. Non è possibile essere come loro, ripete da anni una canzone di Claudio Chieffo sugli sterminatori di Auschwitz, ma non è difficile essere come loro.
Purtroppo di Antonio non ce n’è uno solo, ma molti: sono i figli di tutte le mancate possibilità di bene, di bello, di vero e di buono che i nostri ragazzi avvertono quotidianamente dentro ogni “no”, ogni errore, ogni “caduta”, ogni rimprovero: non si stimano degni di vivere e vivono ogni battuta d’arresto come la conferma di questo loro presentimento, radicandosi nel dolore, attrezzandosi a riprendere il loro posto con la pratica del male.
A loro, ma anche a Marco, a Daniele ed Eleonora, andrebbe dedicato un libro. Ma forse oggi basta un momento di silenzio, un pensiero, una commossa preghiera. In questo mondo in cui le vittime si confondono ai carnefici, lasciando le coscienze in una confusa attesa. Certi solo del bisogno di tutti di essere amati. E portati in salvo.