Sabato 16 novembre si è svolta a Milano la presentazione del libro Il tempo delle chiavi di Nicola Rao. Erano presenti, oltre all’autore, attuale direttore della Comunicazione in Rai, anche Peter Gomez, giornalista del Fatto Quotidiano, Ignazio La Russa, presidente del Senato, e Guido Salvini, il giudice che condusse l’inchiesta sulla morte di Sergio Ramelli, avvenuta nel 1975. Un omicidio maturato negli ambienti della sinistra extraparlamentare e di cui, per molti anni, sono stati taciuti gli autori.
È l’occasione per ripercorrere, insieme al coraggioso magistrato, quella vicenda e il contesto in cui avvenne.
L’aggressione a Sergio Ramelli, la sua persecuzione al Molinari, scuola che frequentava, la sua morte. Per anni non se ne seppe più nulla, poi la vostra inchiesta. Quale fu la chiave di volta che vi portò a individuare i colpevoli?
È stata un’indagine difficile. Inizialmente si pensava che i responsabili dell’aggressione a Ramelli fosse un gruppo di quartiere, quelli del Casoretto, di matrice proto-terroristica. Poi capimmo che c’era qualcosa di più in alto. All’interno di un mondo di gente “perbene” che, proprio per questo, aveva consentito ai colpevoli di restare nell’ombra per tanti anni. Alla fine qualche testimone ci disse che era stato il servizio d’ordine di Avanguardia Operaia di Medicina a Città Studi. Tutti giovani della borghesia milanese. Fu difficile rompere quel muro di omertà che per tantissimi anni li aveva protetti.
Facciamo un passo indietro. Siamo al Molinari, una scuola superiore per periti chimici a Milano. Tutto comincia con un tema in cui Ramelli mette a confronto gli opposti estremismi. Un tema che venne diffuso nella scuola e che fu l’inizio di una vera e propria persecuzione. Ma dov’erano gli insegnanti?
C’erano ma hanno voltato le spalle. Lo testimoniano i registri dei consigli di classe dell’epoca. Quegli insegnanti, per ideologia o vigliaccheria, sono colpevoli o forse più che gli aggressori di Ramelli.
Torniamo all’inchiesta. Come arrivaste ai nomi dei colpevoli?
Ai nomi ci si arrivò tramite un ragazzo della squadra che non aveva partecipato all’aggressione in quanto era malato. Lo interrogammo e capì subito che si trovava in una situazione pericolosa. Rischiava di essere reso responsabile di una colpa anche non sua. Lo vedemmo molto agitato, ebbe l’impressione che sapessimo già tutto e ci raccontò le modalità dell’aggressione. Arrivammo così ai componenti della squadra che aggredì Ramelli.
Li interrogaste subito?
Subito la sera degli arresti. Prima che un certo mondo di “solidarietà militante di sinistra” li facesse chiudere a riccio e impedisse di accertare la verità. C’era già in città un tam tam a difesa loro, come se fossero stati vittime innocenti di una repressione. Per fortuna li interrogammo subito. Ci fu forse il primo pianto nel corso di un interrogatorio, la prima confessione. Da quel momento sul piano dei fatti non vi sono stati più dubbi.
E come trovò questi ex ragazzi, ormai diventati adulti, alcuni medici affermati?
Li trovai spaventati, vergognosi di quello che avevano fatto, contriti ma non proprio pentiti. Come se in un certo modo fossero stati il terminale di un mondo politico che normalmente giustificava e faceva quelle cose. Per cui questo, in qualche modo, dentro di loro alleggeriva la colpa.
Sono stati giuste le condanne?
Le condanne sono state molto contenute e giuste. L’obiettivo non era mettere in carcere queste persone, che ormai erano al di fuori della vita politica, ma offrire a Milano la verità sulla morte di Ramelli.
(Angelo Frigerio)
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