“Fermiamoci a riflettere. Cosa diremo ai nostri figli? Io ho un ragazzo di 13 anni. Che cosa gli dirò? Di non intervenire laddove vedrà una lite domani mattina, domani sera? Cosa diremo? Che messaggio trasmettiamo ai nostri figli? Interroghiamoci”. Sono queste le parole con cui mercoledì scorso il premier Conte si interrogava sulla morte di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo di 21 anni ammazzato di botte da quattro ventenni dopo che aveva tentato di sedare una rissa che vedeva coinvolto un suo ex-compagno di classe nella notte di sabato a Colleferro, un paese di ventimila abitanti a sud-est di Roma nella Ciociaria.



La costernazione del nostro primo ministro è la costernazione di tutti coloro che si sono lasciati toccare in prima persona da questa vicenda: io me ne sento così provocato da non poterne non scrivere, anche pensando a quei ragazzi, io insegnante, che rivedrò dopo la lunga assenza da scuola: cosa dirò? cosa diremo ai ragazzi? anche non avessimo a menzionare in modo esplicito la notizia della morte di Willy, come staremo davanti a loro volendo pur condividere con loro, più o meno consapevolmente, l’avventura dell’essere vivi in questo mondo, tenendo conto dunque anche di Willy, della sua storia?



Nella notte di sabato nel centro di una Colleferro affollata come ogni sera nei fine settimana, Willy era uscito con alcuni amici dopo aver terminato alle 23:30 il suo turno di lavoro in cucina (lui apprendista cuoco); mentre attraversa con i suoi amici Piazza Italia vede un suo ex-compagno di scuola coinvolto in una rissa davanti al locale Duedipicche. Willy si ferma per cercare di calmare gli animi nonostante i suoi amici cerchino di dissuaderlo. Willy tenta di fare da paciere ma la situazione rimane tesa: un amico infine lo convince a tornare a casa. Nel mentre però sopraggiungono altri ragazzi chiamati dagli aggressori dell’ex compagno di scuola di Willy. Questione di attimi: mentre Willy si dirige verso la sua auto parcheggiata a pochi metri dal luogo della colluttazione, viene travolto insieme al suo amico dalla furia cieca dei ragazzi sopraggiunti: questi infieriscono in particolare su Willy con pugni e calci. Al sopraggiungere del personale di sicurezza del locale gli assalitori si dileguano lasciando a terra il ragazzo esamine. Willy muore nel tragitto verso l’ospedale a causa delle lesioni provocategli dagli aggressori.



Nei giorni successivi i profili di questi ultimi diventano di dominio pubblico: ventenni, appassionati di arti marziali, con precedenti per aggressioni e spaccio di droga; sui profili social mettono in mostra i loro muscoli tatuati, in certi casi lanciano messaggi di incitamento alla violenza e ostentano una vita fatta di lussi (vestiti di marca, vacanze in mete esclusive); la sfrontata arroganza del loro linguaggio machista va di pari passo con la fondamentale inespressività dei loro volti e con la straziante apatia del loro sguardo.

D’altra parte, col passare dei giorni, emerge anche il profilo di Willy: italiano di seconda generazione di origine capoverdiana, figlio di piccoli imprenditori agricoli, cattolici, Willy aveva studiato presso un istituto alberghiero a Fiuggi per diventare cuoco; oltre alla cucina una grande passione per il calcio, e per la Roma, coltivata sui campi dell’oratorio. Gli adulti che lo hanno visto crescere nell’Acr (Azione cattolica ragazzi) raccontano di un ragazzo rispettoso, generoso, acuto, che metteva in difficoltà gli educatori con le sue domande; il suo professore dell’Istituto professionale di Fiuggi di lui ricorda in particolare lo sguardo intelligente, curioso e alla ricerca di un maestro; le foto del suo volto, che in questi giorni rimbalzano sui media, raccontano di un ragazzo pieno di vita, sorridente, umile.

La morte di Willy lascia senza fiato: perché Willy era assolutamente inerme e innocente; perché i suoi assassini non sono mostri ma ragazzi terribilmente comuni (“banali” li avrebbe forse definiti Hannah Arendt). Il primo perché non ha bisogno di spiegazione. Il secondo si spiega col fatto che gli assassini di Willy sono figli della cultura oggi dominante il nostro mondo (liquida, consumista, col culto dell’apparenza) che facilmente mortifica la capacità di giudicare i nostri atti: prendendo a prestito una formulazione di Pasolini (in merito al massacro del Circeo) potremmo dire che la ferocia degli assalitori di Willy è stata “prodotta dall’assoluta mancanza di ogni tradizionale conflitto interiore. Non c’è stata scelta tra male e bene: ma una scelta tuttavia c’è stata: la scelta dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà” (Lettere luterane, Garzanti, 2009, p. 185). Gli assassini di Willy, un po’ sbrigativamente liquidati come “animali umani” da Affinati in un suo editoriale su Avvenire, sono figli del nostro tempo, della cura o (più evidentemente) dell’incuria di noi adulti: perché, come ricorda ancora Pasolini, “i casi estremi di criminalità derivano da un ambiente criminaloide di massa” (Ivi, p. 182). Quello che è avvenuto a Colleferro, insomma, potrebbe avvenire ovunque.

D’altra parte, non scriverei quello che sto scrivendo se volessi appena denunciare la mia costernazione, il mio sbigottimento per l’ingiustizia subita da Willy: io vorrei anche parlare del senso di riconoscenza che provo nei suoi confronti. Provo a spiegarmi cominciando col ribaltare, per così dire, l’ultima considerazione di Pasolini: come i casi estremi di criminalità sono espressione di un modo di essere criminale ramificato, così anche i casi estremi di solidarietà derivano da un ambiente solidale diffuso. Il gesto di solidarietà di Willy, quello con cui ha provato a difendere l’ex-compagno di scuola in difficoltà, è un gesto che ha radici in un tessuto di relazioni familiari, parrocchiali, scolastiche, insomma, in una educazione che gli ha insegnato, a differenza dei suoi assalitori, a distinguere il bene dal male, che lo ha introdotto a riconoscere la dignità dell’altro e a prendersene cura: non è un caso che i responsabili dell’Acr lo ricordano anche per quel suo intercalare, “Non ti preoccupare, ci penso io a loro”, attraverso cui Willy, allora adolescente, condivideva con l’educatore adulto il suo desiderio di prendersi cura dei coetanei più scalmanati.

Sulla vicenda di Willy hanno scritto su Avvenire un editoriale a più mani i vicepresidenti e assistenti nazionali per il Settore giovani di Azione Cattolica: “In quella rissa c’erano tante mani, tutte uguali, tutte umane, eppure così diverse! La differenza sta in ciò che ha indotto Willy a riattraversare la strada, per andare in soccorso all’amico in difficoltà. Ciascuno chiamerà questa spinta in modo diverso, ma è proprio questa differenza umana (così divina!) che è necessario innescare, animare, dischiudere negli anfratti più difficili e delicati delle giovani generazioni”.

Queste parole descrivono bene il rinnovato senso di responsabilità davanti al prossimo che la morte di Willy ha innescato in me e in chi ne si sia lasciato interrogare. Il suo gesto, di dare la vita per il suo amico come richiamava ieri il vescovo Parmeggiani nell’omelia del funerale, con lo scuoterci, ci dà ora nuovi occhi attraverso cui ci rendiamo conto della responsabilità che abbiamo nei confronti di chi ci è prossimo (familiari, colleghi, studenti); sicuramente responsabilità di promuovere una cultura non dell’odio ma della solidarietà, una cultura non dell’indifferenza ma dell’accoglienza, come ha fatto chi ha educato Willy.

Ma tale responsabilità avviene come conseguenza di una prima, irrefutabile responsabilità da cui nessuno, laico o religioso, può esimersi, se vuole rispondere in modo adeguato a chi ha di fronte: quella di ascoltare e dunque di comprendere la domanda o la provocazione che l’altro ci pone, anche non fosse in grado di proferir parola, magari con la sua sola presenza fisica, con il suo sguardo (mi chiedo, quali adulti hanno incrociato lo sguardo degli assassini di Willy prima bambini, poi adolescenti?).

Solo assumendoci questa prima, irrefutabile responsabilità l’anno scolastico, ma potremmo dire l’anno sociale, non sarà solo l’anno di una rinnovata emergenza sanitaria ma anche, come chiedeva il nostro premier ai funerali di Willy, l’anno di una reale, non retorica, inclusione.