Identificata in Israele una nuova subvariante di Omicron, a sua volta variante del virus Covid, definita BA.3. Secondo i primi studi si tratterebbe di un incrocio di altre due subvarianti, la BA.1 e la BA.2.

Come ci ha detto in questa intervista il professor Roberto Cauda, docente di Malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore dell’Unità operativa di malattie infettive al Policlinico Gemelli, “al momento non si è ancora in grado di dire quale sarà il valore dell’impatto o della gravità di questa nuova subvariante così come non si può dire se sia il caso di fare una quarta dose di vaccino anti-Covid, nonostante negli Stati Uniti la Food and Drug Administration abbia dato l’ok a una quarta dose per gli over 50”.



Che cosa sappiamo di questa nuova variante, quanto è più contagiosa o diffusa?

Come per tutte le altre sotto-varianti, nel momento in cui ne viene isolata una non ne conosciamo la valenza né la gravità. Ci sono migliaia di sequenze messe in Rete dai ricercatori, ma quelle che possono avere un impatto di tipo epidemiologico o clinico sono davvero poche. Ricordiamo quelle tristemente famose come Alfa, Beta, Delta e altre che invece fortunatamente si sono esaurite da sole.



Quanto e come è cambiata la spike? Questa variante potrebbe essere meno individuabile dagli anticorpi?

A causa delle sue mutazioni la proteina spike di Omicron è sostanzialmente diversa da quella delle varianti precedenti. Pertanto non stupisce che il sistema immunitario, anche se istruito dalla vaccinazione o da una precedente infezione con altre varianti, faccia fatica a riconoscere la spike di Omicron, e non sempre sia in grado di bloccarne l’infezione. Questo spiega i numerosi casi di reinfezione che vengono segnalati. Quando un virus si replica, va incontro a mutazioni che sono errori con cambiamenti singoli, mutazioni che possono essere anche multiple. Omicron, ad esempio, ne ha più di cinquanta, altre di meno.



In buona sostanza, il Covid continua a vivere e a riproporsi in forme diverse?

Quanto più un virus si replica rispetto alla prima ondata tanto più le mutazioni avvengono con una frequenza proporzionale al numero delle replicazioni del virus. Ed è chiaro che quanto più il virus si replica e quanto più colpisce le persone, il rischio di avere mutazioni è maggiore e con esso aumentano le possibilità che ci possano essere nuove varianti.

La nuova subvariante potrebbe essere più pericolosa delle precedenti?

L’Oms ha istituito due categorie, quella detta VoC, Variant of Concern, variante di preoccupazione, come Omicron, e la VoI, Variant of Interest, le sorvegliate speciali, delle quali non sappiamo ancora quale sia il reale impatto. Questa variante non è tanto frutto di errori nella replicazione quanto di una ricombinazione fra Omicron 1 e Omicron 2. È una variante avvenuta in un paziente in cui c’è stata una combinazione. Non siamo ancora in grado di dire quale sarà l’impatto.

Però è corretto dire che queste subvarianti sono meno letali?

Al momento sì. C’è un aumento di trasmissibilità, come percentuale siamo a quella del morbillo. Per questa nuova variante ibrida si pensa possa essere ancora maggiore, si tratterebbe cioè del virus più trasmissibile mai messo in circolazione. Nel contempo sembrerebbe esserci una diminuzione della letalità. Omicron nelle sue subvarianti si sta dimostrando meno grave.

È necessario fare una nova dose di vaccino o aggiornare i vaccini esistenti?

Con Omicron abbiamo ormai capito tutti che due dosi di vaccino non bastano a mettere in sicurezza. Serve la terza dose, che in Italia purtroppo ha fatto solo il 60% della popolazione. I vaccini non impediscono l’infezione, non danno una protezione molto elevata perché l’immunità nel corso del tempo tende a diminuire. Infatti chi ha fatto tre dosi si può infettare, ma si ha un’ottima protezione nei confronti della malattia grave. Vediamo statisticamente che a un numero elevato di infezioni non corrisponde uno stesso numero di ospedalizzazioni o di ricoveri in terapia intensiva.

(Paolo Vites)

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