Per mesi è stato indicato come il paese benchmark nella lotta al Covid, ma da quando la variante Omicron ha fatto la sua comparsa, alla fine di novembre, per Israele la sfida alla pandemia è diventata una sofferenza.

Secondo un’indagine condotta da Ynet, uno dei principali siti web israeliani di notizie, Israele sta inanellando una serie di tristi record: martedì 11 gennaio si sono registrati “quasi 44mila casi di Covid in un solo giorno” e “72 nuovi pazienti gravi sono stati ricoverati in ospedale, il numero più alto in un solo giorno dalla fine di settembre”. Intanto il ministero della Salute afferma che “il tasso di infezione è ora del 12,09%”, mentre l’indice Rt è salito a “2,02, indicando un contagio diffuso”.



Non solo: l’inchiesta di Ynet mette sotto accusa l’operato del premier Neftali Bennett con un titolo che non lascia scampo: “Niente letti d’ospedale, niente regole chiare: Israele non riesce ad affrontare le sfide dell’ondata Omicron”. E nell’articolo si legge che “il governo alla fine non è riuscito a utilizzare il tempo extra per preparare il sistema sanitario, l’economia e il sistema educativo per l’eventuale assalto di massa. Dall’approvvigionamento dei farmaci Pfizer e Merck per curare il virus e dal lancio di un quarto vaccino – dalla dubbia efficacia – Israele sta lottando con l’impennata dei contagi e il previsto aumento dei ricoveri. Non c’è stato alcun aumento dei posti letto negli ospedali, anche nelle unità di terapia intensiva”.



Bennett si è difeso dichiarando che Israele sta gestendo l’epidemia di coronavirus meglio di qualsiasi altra parte del mondo e ha ricordato i tre princìpi che guidano la risposta alla pandemia del suo governo: “mantenere l’economia il più aperta possibile, proteggere i più vulnerabili nella società e mantenere attivo e funzionante il sistema educativo”. Ma anche sulla scuola non manca la débâcle: circa 73.550 scolari sono attualmente classificati come pazienti Covid attivi e altri 98.285 sono attualmente in isolamento, con un tasso di infezione ormai attestato al 10%, mentre “la campagna vaccinale pediatrica ha raggiunto solo 56mila bambini di età compresa tra 5 e 11 anni, pari a una quota fra il 40% e il 50% del corpo studentesco”. E ha concluso: “Le prossime settimane saranno difficili, ma ce la faremo”. Quanto difficili? I ricercatori dell’Università Ebraica di Gerusalemme hanno stimato che entro quindici giorni Israele avrà un record compreso tra 800mila e due milioni di persone malate di Covid-19 e il professor Eran Segal del Weizmann Institute ha stimato che entro la prossima settimana il paese potrebbe vedere un israeliano su 10 infetto dalla Omicron, tanto da invitare la popolazione a restare a casa e a evitare la folla.



Come è stato mai possibile arrivare a questo? Perché Israele si trova a dover affrontare – parola del premier Bennett – una bufera, “una guerra, proprio come abbiamo fatto nella prima ondata”?

Di certo, a pesare è la contagiosità della Omicron, la cui impennata di infezioni non sta risparmiando nessun paese. Lo stesso professor Segal sostiene che “la ricerca in tutto il mondo ha dimostrato come il numero reale di infezioni da Omicron sia tre o quattro volte superiore a quello identificato nei test”. Ma al previsto aumento dei ricoveri, Israele non ha messo in conto alcun aumento dei posti letto negli ospedali, anche nelle terapie intensive, perché secondo il ministro della Salute, Nitzan Horowitz, citato da Ynet, “il ministero delle Finanze persiste nel suo rifiuto di finanziare letti aggiuntivi per curare i pazienti Covid”. E anche i laboratori di analisi – attrezzati per esaminare solo 170mila test Pcr in 24 ore – si sono trovati impreparati a far fronte alle crescenti quantità di esami molecolari affluiti da ogni angolo del paese.

In secondo luogo, pesa il fatto che in Israele, pur avendo una popolazione giovane, con un’età media di poco superiore ai 30 anni, dieci in meno rispetto a quella di Italia, Spagna e Francia, gli abitanti sono distribuiti su una piccola area geografica ad alta densità (400 persone per kmq), il che favorisce un’alta probabilità di veloce trasmissione virale. E, come ulteriore fattore di rischio da considerare, c’è la morbilità della popolazione, visto che Israele presenta una quota più alta di popolazione con due o più malattie croniche rispetto, per esempio, anche all’Italia.

Ma il dato più sorprendente arriva dalla campagna vaccinale. Nonostante abbia deciso in anticipo rispetto a tutti gli altri paesi di somministrare i booster (ora a tre mesi dalla seconda dose), Israele conta una quota di popolazione che ha completato il ciclo vaccinale iniziale pari ad appena il 65%: si tratta di poco meno di 6 milioni di abitanti sui 9 totali. Una performance che colloca il paese (fonte: Il Sole 24 Ore) al 55° posto nella classifica mondiale e al 20° nella graduatoria per numero di dosi ogni 100 abitanti. Tanto per fare un esempio, in Italia la percentuale di vaccinati con due dosi è del 75% e in Lombardia, regione che ha una popolazione simile a quella di Israele, si aggira sull’80%. Tra le cause che possono spiegare questi tassi bassi di immunizzazione, secondo alcuni osservatori, andrebbe inclusa la resistenza ai vaccini delle comunità ultra-ortodosse, considerati i no vax d’Israele, e la scarsa partecipazione alla campagna vaccinale degli arabi israeliani.

Insomma, sembrano lontani i tempi in cui, a fine 2020, Israele poteva mostrare al mondo la sua efficienza vaccinale, grazie a tre fattori di successo: fornitura di sieri, capacità di diffusione delle iniezioni e alta disponibilità della popolazione alla vaccinazione. Oggi la corsa della Omicron sembra inarrestabile. Anche se a Israele resta ancora un record positivo: la bassa mortalità, visto che – come ha rivendicato Bennett – “in Gran Bretagna è 50 volte maggiore che da noi, in Germania 100 e negli Stati Uniti 130”.

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