Si parla sempre più spesso di era digitale e negli ultimi anni le scoperte e gli esperimenti condotti sulla cosiddetta Intelligenza Artificiale ci stanno portando a pensare che non solo la macchina potrà sostituire l’uomo nelle sue azioni fisiche, ma anche in quelle legate all’apprendimento, alle scelte, persino alle emozioni. Recentemente, poi, con lo scoppio della pandemia la nostra vita per settimane si è spostata verso la dimensione digitale, anche nelle relazioni di lavoro. Luciano Floridi da tempo parla di “onlife”, l’idea di unire sia l’online, sia l’offline, sia il digitale, sia l’analogico. Oggi Floridi, docente di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, parlerà al Meeting di Rimini proprio di “onlife” insieme a Costantino Esposito, professore di storia della filosofia all’Università di Bari. Il Sussidiario ha sottoposto ad entrambi alcune domande.



L’onlife è la “nuova condizione umana”?

Luciano Floridi: Non credo che esista “la” condizione umana, ma tante condizioni umane, tra le quali possiamo privilegiare alcune, a volte una sola, ma a ragion veduta, per un motivo che deve essere esplicitato e giustificato. Per esempio, se si parla di socializzazione, di comprensione della propria identità, o di rapporti di ogni genere (economici, sociali, politici, di forza, di amicizia, ecc.), allora credo abbia senso dire che oggi la distinzione tra essere offline e presenti nel mondo esclusivamente analogico, o esser online e presenti nel mondo esclusivamente digitale, ha sempre meno senso, per sempre più persone. Viviamo “onlife”, un neologismo che ho coniato per sintetizzare la “nuova condizione umana”, non in assoluto, ma nel contesto che ho appena delineato (La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Cortina 2017). Se oggi privilegiamo questa interpretazione della condizione umana non è perché le altre siano meno importanti, ma è perché è questa che fa la differenza anche nei confronti delle altre. Si pensi alla mortalità, per esempio, e a come il culto dei morti oggi sia profondamente trasformato dalla vita onlife e dai “resti digitali” che lasciamo dietro di noi dopo la nostra fine. La questione interessante è che cosa resta di invariato e che cosa si trasforma, nell’esperienza online, delle varie condizioni umane che abbiamo concettualizzato in passato, dalla corporeità contingente all’autonomia individuale.



Costantino Esposito: La condizione umana, una o molteplice che sia, non è mai un’astrazione, non è mai un semplice “assoluto”, ma è un “accaduto”, qualcosa che si realizza sempre rispondendo alle sfide storiche, concrete della realtà fatta di spazio e di tempo in cui le persone vivono. Oggi la questione che si impone con particolare urgenza è che gli esseri umani sono sempre più immersi in un habitat digitale (quello che Luciano chiama felicemente onlife), che essi stessi hanno prodotto, come costruendosi una grande casa nella quale però rischiano di perdersi, come stranieri a casa propria. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione costituiscono una strepitosa possibilità per l’organizzazione dell’esistenza degli esseri umani e per la costruzione del loro mondo. Ma tutto ciò costituisce anche una grande sfida a capire nuovamente, senza darlo per scontato, chi siano questi umani e cosa sia il mondo. Una volta il grande Leibniz scrisse che quando Dio calcola si forma il mondo (cum Deus calculat fit mundus). Oggi questo grande calcolatore non è più la persona divina, ma neanche la persona umana, bensì un sistema neutro, un archetipo impersonale. Ecco il problema: può questa forma calcolatoria del mondo, creata certo dall’intelligenza umana, diventare anche una forma umana di vita? C’è un criterio per parlare dell’umano che preceda o ecceda le sue costruzioni? O sono queste costruzioni che determinano di volta in volta cosa è umano?



L’Intelligenza artificiale (AI) cambia ciò che siamo? In che misura e perché?

Floridi: Cambia i nostri comportamenti, ad esempio influenzando le nostre scelte e dando forma alle nostre preferenze (in genere rafforzando, non educando la persona nei suoi comportamenti), ma in questo caso parlerei più dell’AI come mezzo usato da alcuni per influenzare altri, come già faceva Norbert Wiener. Invece l’AI di per sé – non come mezzo ma come un fenomeno con cui ci confrontiamo, quello della capacità di agire con successo, per risolvere problemi per noi ma al posto nostro, a volte meglio di noi, senza alcun bisogno di reale intelligenza – modifica la nostra autocomprensione e ci sfida a riconcettualizzare la nostra eccezionalità. Per banalizzare: saper giocare a scacchi o saper guidare un veicolo con successo non è più una caratteristica unicamente umana. La nostra eccezionalità va ripensata anche alla luce dell’AI. Per questo ho parlato di una quarta rivoluzione di “spiazzamento”: non siamo al centro dell’universo (Copernico), del regno animale (Darwin), della sfera mentale (Freud), e oggi sappiamo di non essere al centro dell’infosfera. Questa “perifericità” credo sia un valore da apprezzare, non un limite, e dobbiamo (anche) all’AI l’avercela fatta scoprire (La quarta rivoluzione, op.cit.). Siamo sempre stati periferici, è solo che oggi lo sappiamo meglio. Di qui il mio suggerimento a sviluppare un’etica che sia “eccentrica”, per giocare con le parole, cioè un’etica basata sulla centralità delle relazioni, non dei relata, e quindi di cura e servizio, di chi lava i piedi all’altro (Giovanni 13,12-15).

Esposito: L’AI, a mio modo di vedere, oltre a procurarci competenze, facilitazioni e velocizzazioni nel nostro rapporto con il mondo (e di questo come potremmo non esserle grati?) pone filosoficamente ed educativamente un problema di grande interesse: che cosa significa essere intelligenti? Che vuol dire sviluppare l’intelligenza come una competenza “naturale” servendosi di risorse artificiali? Normalmente noi siamo indotti a pensare che l’AI costituisca la massima performance dell’intelligenza naturale, in cui quest’ultima estende tendenzialmente al massimo le sue possibilità. Sta di fatto però che vi sono delle esperienze che la nostra intelligenza, limitata ma unica nel suo genere, può compiere. Come l’intuizione immediata del senso di una cosa o di un evento, il gusto per la bellezza, la percezione del destino di una vita, ecc. Ecco il punto: è con il modello dell’AI che dobbiamo guardare all’intelligenza naturale o è quest’ultima che può e deve suggerire le prospettive di senso cui orientare il suo stesso potenziamento grazie all’AI?

L’intelligenza e libertà definiscono il nostro io. All’AI quale libertà compete?

Floridi: Nessuna, la tecnologia parla di libertà solo in senso metaforico, perché ci manca il vocabolario non antropomorfico per descrivere una capacità di azione che non ha nulla a che fare con quella umana o anche solo biologica. Questo è un doppio guaio: usiamo il vocabolario umano per descrivere le macchine (i computer “vedono”, “pensano”, “ragionano”, apprendono”, ecc.) e quello delle macchine per dare un tono scientifico alle descrizioni dell’umano (il cervello “processa dati”, “elabora informazioni”, il corpo “reagisce a stimoli”, ecc.). In questa duplice confusione sbagliamo completamente il livello di astrazione (Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, Cortina 2020) e finiamo per essere trascinati da metafore e analogie a conclusioni senza senso.

Esposito: È proprio vero che parlare di libertà per l’AI è un uso del tutto equivoco del linguaggio. Però già questo uso scorretto ci costringe indirettamente a non dare per scontato cosa significhi sentirsi liberi per gli esseri umani. Certamente le tecnologie digitali possono costituire un aiuto prezioso per conseguire con “successo” i nostri obiettivi. Ma qual è il nostro obiettivo più importante, starei per dire il più strategico, se non quello di “dare significato e forma al mondo”, come spesso Luciano richiama nei suoi scritti? E per questa significazione continua che “è” la nostra vita c’è bisogno di un “io”, di un punto, diciamo così, irriducibile a tutte le sue prestazioni, ma senza il quale ogni prestazione sarebbe priva di senso. Questo non significa certo ritornare a quell’antropocentrismo ereditato dalla cultura moderna, che poi è insensibilmente sfociato in nichilismo, perché se l’uomo si concepisce come la misura del reale riduce inevitabilmente il reale alle sue misure, sempre anguste per quanto grandiose possano sembrare. L’io di cui parlo è un punto di resistenza, cioè di libertà rispetto al mondo intero, naturale e artificiale che sia, perché capace di rischiare nella ricerca di un senso che sia sempre più grande delle proprie misure. Insomma, le macchine non possono essere libere perché non sono capaci di amare. Ma chiedo, forse ingenuamente: e se questa capacità di amare, propria degli esseri umani, si rivelasse decisiva anche per gestire gli algoritmi con cui diamo ordine e sensatezza al mondo? E se gli uomini capissero che l’amore (cioè la libertà realizzata) non è solo un sentimento individuale, ma ha una potenza cognitiva tutta da scoprire e applicare, come ciò che “move il sole e l’altre stelle”… e anche tutte le macchine con cui abitiamo questo mondo?

Viene prima l’io o la relazione?

Floridi: Essendo co-costituenti, la domanda, ontologicamente, non può ricevere una risposta univoca, perché è come chiedere se venga prima lo sposo/la sposa o l’essere sposato/a, il retto o il verso di un foglio. Detto questo, eticamente, si può scegliere di privilegiare le relazioni tra io (scegliere da quale lato del foglio iniziare), piuttosto che concentrarsi sugli io e poi sulle relazioni. È quello che facciamo quando parliamo dei nodi di una rete: i legami costituiscono i nodi, i nodi non precedono i legami, e per riparare, migliorare, ecc. i nodi ci concentriamo sui legami che li uniscono. Purtroppo molta della riflessione filosofica è ancora legata a un modo di pensare “meccanico” (in un meccanismo le parti precedono il tutto e lo costituiscono, si pensi a un vecchio orologio) e non “reticolare” (Il Verde e il Blu. Idee ingenue per migliorare la politica, Cortina 2020). L’io non è tuttavia solo il punto di arrivo delle relazioni, ma anche la sua sorgente: per questo è meglio evitare la domanda sulla priorità.

Esposito: Sono pienamente d’accordo. Anche perché l’io degli esseri umani è esso stesso una relazione, non è una sostanza già costituita che poi entri in rapporto con gli altri e con le cose, ma si costituisce e si “performa” come relazione. Pensare questo, oggi, secondo il web pattern del mondo è una vera sfida. Da un lato infatti il modello stesso della rete – digitale, certo, ma anche neurale, sociale ecc. – può aiutare a pensare le relazioni come ciò che costituisce le nostre vite e le nostre identità; ma dall’altro può anche darci l’impressione che le relazioni siano dinamiche fluttuanti nel gran mare del caso o secondo i meccanismi di forze sociali impersonali, e che tutto consista nelle inter-connessioni. I modelli sembrano simili, ma in realtà sono alternativi: le relazioni possono essere viste come il campo di forze in cui le nostre esistenze dispiegano le loro possibilità d’essere, oppure le nostre esistenze possono essere considerate solo come il prodotto di determinate relazioni. La mia preferenza va al primo modo di vedere le cose. Ma il gioco è davvero aperto.

Nella nuova costruzione digitale del mondo, come intendere il vero e il bene?

Floridi: Su questo ci sarebbe troppo da dire, perciò mi limiterò a due osservazioni. In The Philosophy of Information (OUP, 2011) ho articolato e difeso una teoria della verità basata sul concetto più elementare di correttezza di una risposta a una domanda. Senza entrare nei dettagli, è una teoria di tipo epistemologico (come lo sono il corrispondentismo o il coerentismo, per esempio), che cerca di spiegare che cosa significa dire che un enunciato è vero. La proposta è un’analisi erotetica degli enunciati come [domanda + risposta] (per semplificare “Parigi è la capitale della Francia” = “La capitale della Francia è Parigi? + Sì”) e quindi un’analisi del rapporto di correttezza che interviene tra la domanda e la risposta. Come si vede, non è una teoria ontologica della verità, che, come spiegherà giustamente Costantino, parla del vero in termini di proprietà dell’ente. Per quanto riguarda il bene, in The Ethics of Information (OUP, 2013) ho articolato e difeso una teoria del bene inteso nel duplice senso di prevenzione e minimizzazione della distruzione dell’Essere e cura e arricchimento dell’Essere. In questo caso, la vicinanza è con teorie etiche orientate al paziente (chi “riceve” o subisce un’azione morale) e non all’agente (chi “emette” o fa un’azione morale, si pensi all’etica della virtù, oppure al deontologismo kantiano), come l’etica medica o quella ambientalista.

Esposito: Spero che mi perdonerà il mio amico Luciano Floridi se richiamo il fatto che la “vecchia” teoria scolastica sul vero e sul bene come “trascendentali”, di cui parlava per esempio Tommaso d’Aquino, può riservare dei punti di grande pertinenza anche con l’archivio concettuale del nostro tempo. Il vero è un carattere dell’ente, una dimensione delle cose, ma dice “più” dell’ente, cioè la sua relazione all’intelletto. Senza la nostra capacità di domandare, accogliere e “costruire” il senso, il vero non ci sarebbe. E così il bene, che dice sì l’ente, ma anche di più, perché indica il rapporto al nostro desiderio. Il bene indica il fatto che il reale sia desiderabile. Insomma dobbiamo esserci noi, esseri liberi, protagonisti della conoscenza e vettori dell’affezione perché tutti gli algoritmi del mondo possano fare il loro mestiere.