Codice rosso per l’umanità. In termini più sobri nelle 42 pagine della sintesi per decisori politici del rapporto IPCC, Gruppo Intergovernativo delle Nazioni Unite che studia il riscaldamento del pianeta, si riconosce che l’impatto dannoso dell’attività umana sul clima, oceani e suolo è un dato di fatto. La prima volta che l’ente avanzò sospetti “sulla responsabilità dell’uomo” sui cambiamenti climatici risale a sette anni fa. Oggi lo inchioda inequivocabilmente.
In estrema sintesi, il documento (3.949 pagine in totale) al quale hanno lavorato 234 scienziati di 195 Paesi rileva che:
– La temperatura superficiale globale è stata di 1.09C più alta nel decennio tra il 2011-2020 che tra il 1850-1900.
– Gli ultimi cinque anni sono stati i più caldi mai registrati dal 1850.
– Il recente tasso di innalzamento del livello del mare è quasi triplicato rispetto al 1901-1971.
– L’influenza umana è “molto probabilmente” (90%) la causa principale del ritiro globale dei ghiacciai dagli anni ’90 e della diminuzione del ghiaccio marino artico.
– È “praticamente certo” che gli estremi caldi, incluse le ondate di calore, siano diventati più frequenti e più intensi dagli anni ’50, mentre gli eventi freddi sono diventati meno frequenti e meno gravi.
La sesta relazione di valutazione, il report finale è atteso nel 2022, giunge dopo gli eventi meteorologici estremi nei vari continenti ed è propedeutica per il vertice mondiale dei Paesi Onu sul clima, la Cop26 di Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre.
Per quanto usi una terminologia cautelativa – probabile, molto probabile, estremamente probabile, media fiducia, ecc. – per indicare con modelli gli eventi a venire, il report fornisce munizioni all’esercito dei catastrofisti ambientali ideologici accompagnato dal solerte battaglione di media sensazionalisti. Tuttavia, niente di nuovo sotto il sole. Come chiosa Greta Thunberg “nessuna sorpresa dal lavoro dell’Ipcc”: avevamo già tutte le conferme della responsabilità antropica del cambiamento climatico in migliaia di studi scientifici.
Prendiamo l’innalzamento del livello dei mari, i modellisti del clima mostrano che un innalzamento di 2 metri entro la fine del secolo non può essere escluso; ma nello scenario peggiore si arriva fino a 5 metri entro il 2150.
Invece il rapporto è ineluttabile sull’evoluzione dell’aumento delle temperature globali rispetto alle medie pre-industriali (1850-1900). Sarà sforato entro i 2100 il limite di aumento di 2°C , venendo meno agli impegni dell’azione internazionale siglati con l’Accordo di Parigi del 2015. Secondo la valutazione degli scenari considerati dagli studiosi dell’Ipcc, il target verrà superato a meno che non ci siano enormi tagli alle emissioni di gas anidride carbonica e altri gas clima alteranti.
In più di un passaggio, riferendosi alle precipitazioni, livello di ossigeno negli oceani, scioglimento dei ghiacciai, ecc. il rapporto paventa come probabile in assenza di interventi, il raggiungimento del punto di ribaltamento, ossia una soglia critica oltre la quale il sistema della biosfera si riorganizza, spesso in modo brusco e/o irreversibile.
Senza negare che il problema ambientale sia reale, prima di asserire apoditticamente la fine prossima del mondo, va tenuto in considerazione la differenza tra scienza e l’esercizio di modelli. Come spiega un fisico con straordinario background di analisi quantitativa, Steve Koonin, nel suo controverso saggio Unsettled, il metodo d’indagine dell’evoluzione del clima poggia sul climate computing. La potenza computazionale a disposizione elabora migliaia di dati, fattori e l’influenza umana per delineare delle simulazioni in laboratorio della realtà e dell’ambiente e di eventi naturali come temperature e meteo.
Sono modelli, non assiomi immutabili, non certezze scolpite nella roccia; sono delle ipotesi che necessitano continui aggiornamenti e rielaborazioni perché la realtà è in costante evoluzione anche in difformità dai modelli. Questo vale in generale e altrettanto per gli scenari dell’Ipcc che hanno valore descrittivo. Del resto, gli appelli disperati dell’Ipcc sono diventati una routine. Mezzo secolo fa, Maurice Strong, primo direttore del programma ambientale delle Nazioni Unite, Unep, tuonava che il mondo aveva a disposizione solo dieci anni per evitare la catastrofe. Nel 1990, l’allora direttore Unep, Mostafa Tolba, avvertiva che il problema climatico o si risolve entro il 1995 o non c’è più niente da fare. Nel 2019, María Fernanda Espinosa Garcés presiedendo l’assemblea delle Nazioni Unite su clima e sviluppo sostenibile, apriva la sessione con un accorato monito: “Siamo l’ultima generazione che può impedire un danno irreparabile per il pianeta. Ci sono rimasti solo 11 anni”. E già due sono trascorsi.
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