L’APPELLO DELL’ONU IN DIFESA DEI “NON BINARI”: “SMANTELLARE LE IDENTITÀ DI GENERE”

Il 14 luglio scorso non era solo la Festa nazionale in Francia ma l’Onu ha celebrato la Giornata Internazionale della visibilità non-binary (persone non binarie) con un appello lanciato poi sui social di tutto il mondo che risuona quantomeno “controverso” nelle intenzioni: «Dobbiamo smantellare gli stereotipi sull’identità di genere, l’espressione di genere e i ruoli di genere che sono sostenuti da norme sociali patriarcali. Nella Giornata internazionale delle persone non binarie, prendiamoci del tempo per riflettere e imparare».



È il nuovo corso di una cultura e società che i detrattori definiscono “woke”, in grado di voler riscrivere il linguaggio corrente, di contestare ciò che ha prodotto la cultura passata (dai libri di Orwell ai discorsi di Churchill fino al film Disney Biancaneve, ndr) e di rappresentare una continua difesa delle minoranze che rischia, talvolta, di rovesciare la discriminazione verso le categorie considerate “privilegiate”. È il caso ad esempio della maxi questione del “gender” (genere) con gli ultimi anni che hanno visto l’impegno esponenziale di Onu & simili per proteggere le ancor più piccole sensibilità (legittime, sia ben chiaro) su ciò che ognuno “sente” su di sé come giusto. È quello che qualche pensatore controcorrente definisce la “dittatura dei diritti”, dove ogni viene abolito spesso il “dovere” a vantaggio di un “diritto-desiderio” che diventa l’unica stella polare da perseguire.



GENERE E ONU: IL RISCHIO DEL LINGUAGGIO “WOKE”

E allora che le Nazioni Unite arrivino a teorizzare e proporre la completa abolizione degli «stereotipi sull’identità di genere, l’espressione di genere e i ruoli di genere che sono sostenuti da norme sociali patriarcali» rischia di prendere ben più delle giuste discriminazioni da contrastare. Ogni linguaggio o pensiero o opera che non passa indenne la neo-censura gender-style rischia di venire squalificata per sempre.

Come abbiamo visto di recente qui in Italia con la polemica sulla “schwa” usata all’Esame di Maturità da uno studente, la fibrillazione dell’opinione pubblica sul tema fa ben capire la portata potenziale di una “rivoluzione” sul linguaggio che dovrebbe far riflettere tutti: «Volevo dimostrare che utilizzare una forma di linguaggio che rappresenti tutti e tutte è possibile, anche durante una prova importante come l’esame di Stato», ha detto lo studente Gabriele Lodetti, che fa parte del collettivo studentesco antifascista e transfemminista “Venti Novembre”. Giornali, politici e associazioni subito si sono buttate sulla vicenda schierandosi tra pro-contro in un dibattito da “tifosi” che non aiuta e che getta alle ortiche anche delle possibili critiche concrete ad un linguaggio che tra i giovani tende a voler “appiattire” tutto per il timore-terrore di creare “discriminazioni”. Con un articolo su “Le Figaro” dello scorso 3 maggio – tradotto da “Il Foglio” – è il celebre professore di biologia cellulare e molecolare dell’Università di Bordeaux, Andreas Bikfalvi, ad avanzare tutti i propri timori riunendo in raccolta di scienziati e intellettuali: «Una nuova forma di ideologia della vittima che tende a decostruire le conquiste sociali, scientifiche, artistiche e intellettuali dell’Occidente accusato di essere l’espressione di una supremazia bianca o eteronormativa. I diversi rami sono in tensione tra loro, da un lato sono relativisti e trasgressivi (come la teoria del genere e la teoria queer) oppure essenzialisti (la razza), ma hanno in comune il concetto di intersezionalità». La diversità come ricchezza, il dissenso e il libero pensiero rischiano seriamente – a partire dalla “rivoluzione del linguaggio”, come avvertiva genialmente già nel Dopoguerra George Orwell in “1984” – di venire spazzate via dall’ondata di “politicamente corretto” che sgorga in giornate come quella sui “non-binary”.