Caro direttore,
nei giorni scorsi il Sussidiario ha ospitato una riflessione sui segni di crisi dello stato di diritto che sembrava di poter cogliere attorno allo stallo della Open Arms al largo di Lampedusa. La riflessione si apriva con il riconoscimento pieno di un’ennesima crisi umanitaria di cui, in quanto tale, era auspicabile ma anche prevedibile un esito favorevole ai migranti raccolti in mare dalla Ong. Una premessa che viene confermata in una nuova riflessione, ora che i 137 migranti sono sbarcati in Italia. 



Quest’ultima si conferma anzitutto l’unico Paese della Ue realmente attivo su un fronte geopolitico critico. Germania e Francia – Paesi che pretendono di guidare la civiltà europea imponendo all’Italia di accogliere tutti e sempre i migranti mediterranei – continuano a tenere chiuse le loro frontiere: a respingere i migranti con una durezza non minore di quella dell’Ungheria di Orbán.

La crisi dell’ennesima nave apparsa all’orizzonte – sette settimane dopo lo speronamento di una motovedetta militare italiana da parte della Sea Watch 3  – è stata risolta dal procuratore di Agrigento pochi minuti dopo che il premier Giuseppe Conte aveva ultimato in Senato una duro intervento contro il vicepremier e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, annunciando le dimissioni del governo. Uno sviluppo che – ad avviso di chi scrive – aggrava le preoccupazioni espresse sulla crisi della “rule of law” in Italia.

Il dossier-migranti – a fianco di quello riguardante ampiamente la crisi economica – è da anni di primo livello nell’agenda politico-istituzionale italiana. Tuttavia non è mai stato oggetto di una valutazione trasparente, approfondita, fattuale da parte del Consiglio dei ministri e quindi del Parlamento. Nel 2013 il ministro degli Esteri Emma Bonino firmò a Dublino gli accordi che – di fatto – hanno poi scaricato sull’Italia l’intero onere di far fronte a flussi migratori sempre più epocali. Solo durante la campagna elettorale del 2018 Bonino ha ripetuto – senza smentite – che da Dublino in poi gli esecutivi di centrosinistra hanno potuto beneficiare di una flessibilità informale da parte della commissione di Bruxelles sui conti finanziari. Ma su questo scambio politico-diplomatico non si ricorda un serio confronto istituzionale in Italia: soltanto l’implementazione tecnocratica di direttive europee, entro le prassi consolidate dopo il 2011.

Neppure il governo gialloverde ha d’altronde mai maturato orientamenti politici definiti e ”guidelines” operative chiare. Per 14 mesi – dal primo giorno – il ministro dell’Interno ha regolarmente duellato a tutto campo: con i governi europei (dalla Francia a Malta, dalla Germania a Lussemburgo) e con la flotta di navi delle Ong europee che hanno costantemente assediato Lampedusa; non da ultimo: con il ministro della Difesa (M5s) Elisabetta Trenta, pressata sia dal suo partito che dalle forze armate impegnate negli anni precedenti nell’operazione Sofia. Il premier Conte – che avrebbe dovuto svolgere un ruolo di garanzia e mediazione – non ha mai messo la questione al centro di un Consiglio dei ministri. E non è un caso che la questione migranti non sia mai stata citata, ieri, nel suo attacco personale al suo vice, sul banco del governo in Senato.

Il procuratore capo di Agrigento non ha atteso un attimo per riempire il vuoto lasciato dal governo (che formalmente resta in carica anche dopo le dimissioni). Con il suo intervento ha interrotto – di sua autonoma iniziativa – una dinamica di soluzione politico-diplomatica del caso Open Arms: il trasbordo dei migranti su una nave militare spagnola in arrivo e la loro redistribuzione in vari paesi Ue (secondo le indicazioni formali degli Accordi di Dublino, imperniati su un’effettiva solidarietà europea sul fronte migranti).

Il magistrato siciliano – lo stesso che ha di fatto consentito il pronto rientro in Germania della “capitana Carola” – è sembrato unicamente preoccupato di concretizzare una rapida sconfessione pubblica delle direttive del ministro dell’Interno. Non solo: ha imposto come fatto compiuto – di nuovo – la prevalenza del potere giudiziario su quello esecutivo e legislativo.

Non da ultimo: una decisione di questa portata politica – immediatamente esecutiva ed eventualmente modificabile solo in un secondo tempo – è stata assunta da un magistrato inquirente. È quindi maturato un salto di qualità rispetto al già inusuale provvedimento d’urgenza emesso dal Tar del Lazio (magistratura amministrativa di merito) a favore di Open Arms alla vigilia di Ferragosto. E questo, ancora una volta, è accaduto mentre l’ordine giudiziario è investito da una crisi istituzionale senza precedenti, che Governo e Parlamento stavano affrontando in chiave di riforma proprio in questi giorni.

In queste ore, intanto nomi di magistrati (Raffaele Cantone e Piercamillo Davigo) si rincorrono nelle indiscrezioni riguardo la possibile formazione di un governo politico di legislatura con maggioranza Pd-M5s. Non è peraltro ancora dimenticato alle cronache il nome di Antonio Ingroia, il magistrato siciliano che nel 2013 si candidò in corsa alle elezioni politiche capeggiando “Rivoluzione civile”: il cui programma strategico contemplava la “correzione giudiziaria degli errori della democrazia”. E sempre negli ultimi giorni, in occasione della scomparsa di Francesco Saverio Borrelli, il leader della Procura di Milano durante Mani pulite, è uscito dal suo ritiro Antonio Di Pietro: il pm simbolo, che lasciò la toga – improvvisamente e senza spiegazioni – durante il processo Enimont e ricomparve poco più di un anno dopo come ministro delle Infrastrutture nel primo governo Prodi. Vincitore delle elezioni 1996 dopo il primo ribaltone del primo governo Berlusconi.