Caro direttore,
a Lampedusa alcune centinaia di migranti africani otterranno – sempre dall’Italia, mai da altri in Europa – vita e prospettiva di vita: ed è bene così (ma forse farebbe bene anche al presidente francese Macron ospitare nella sua capitale uno Stato sovrano guidato da un’autorità morale come Papa Francesco).



Il prezzo dell’ennesima “svolta di Lampedusa” si profila però molto alto per la democrazia italiana: altri colpi di piccone a uno Stato di diritto già fragile, esposto a molteplici strumentalizzazioni.

La possibilità di approdo per la Open Arms è stata accordata dai magistrati amministrativi regionali del Lazio alla vigilia di Ferragosto. Anzitutto: quale cittadino o azienda italiana ha mai avuto una risposta così tempestiva e favorevole da un qualsiasi magistrato del suo Paese, soprattutto nel cuore delle tradizionali ferie lunghe dei palazzi di giustizia italiani? E quale Ong italiana avrebbe avuto udienza tanto premurosa da una magistratura francese o tedesca in un caso analogo? (a proposito: sarebbe utile un po’ di trasparenza sulle reti di appoggio legale alle Ong: già negli anni 70 “Soccorso rosso” faceva una spola disinvolta nella terra di nessuno fra Stato e terrorismo).



Il punto cruciale è tuttavia un altro. La questione migranti è totalmente politica, anzi: assieme alla crisi economica è  fin dal primo giorno il capitolo principale dell’agenda del governo in carica. Non per nulla il leader della Lega – uno dei due partner della maggioranza – è vicepremier e ministro dell’Interno, mentre il leader di M5s è vicepremier con ampia competenza sullo sviluppo economico. La politica di accoglienza (o rifiuto) dei migranti ha lo stesso peso oggettivo della politica economica ed entrambe rappresentano infatti i momenti di confronto strategico con la Ue. E perfino il nuovo presidente dell’europarlamento – l’italiano David Sassoli (Pd) – ha subito indicato come priorità assoluta la revisione degli Accordi di Dublino. 



In questo quadro sembrerebbe istituzionalmente doveroso e senza alternative che le decisioni sui migranti venissero elaborate – magari una volta per tutte, anche a Ferragosto – dal Consiglio dei ministri: senza naturalmente far mancare un confronto altrettanto doveroso con il Parlamento, detentore della sovranità costituzionale ultima. 

La decisione-spartiacque di far sbarcare la Open Arms (sei settimane dopo l’“incidente” della Capitana Carola Rackete) è stata invece presa – in primo grado – da un oscuro magistrato non ordinario: fra l’altro nel pieno di una crisi di credibilità senza precedenti per il potere giudiziario, dopo l’emergere di pesanti fenomeni di inquinamento politico. 

Una carta bollata in burocratese è comunque uscita da uno dei palazzi più opachi di una Roma deserta (al Tar del Lazio approdano – e frequentemente giacciono per mesi – i ricorsi contro le amministrazioni centrali e le autorità indipendenti) per essere immediatamente brandita dal premier Giuseppe Conte e da un singolo ministro, quello della Difesa. 

Conte ha scelto di seguire una procedura ben poco ortodossa: ha scritto al suo vice, Matteo Salvini, titolare dell’Interno, per raccomandargli lo sbarco umanitario di una parte dei migranti attualmente sulla Open Arms. Perché non ha convocato il Consiglio dei ministri? Perché non ha promosso – come sarebbe stato suo dovere – una decisione di governo chiara ed efficace attraverso procedure di legalità costituzionale? Forse temeva di rendere ulteriormente fondata la dichiarazione di crisi politica da parte della Lega dopo i “no” di M5s su Tav, autonomie e politica fiscale? Forse non è in realtà quel premier di garanzia istituzionale – unicamente attento agli interessi del Paese – che i grandi media stanno candidando a succedere a se stesso?

Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, dal canto suo, ha tratto dalla decisione del Tar del Lazio (fra l’altro in primo grado) una conseguenza tanto bruciante quanto complessa: inviare navi militari italiane a trasbordare migranti dalla Open Arms. Premesso che sei settimane fa un’altra nave Ong ha speronato una nave militare italiana (anche se della Guardia di finanza, non dipendente dalla Difesa), il ministro ha il potere autonomo di autorizzare questo utilizzo delle forze armate?

Gia durante la crisi della Sea Watch, sul Sussidiario è stata segnalata la responsabilità ultima del Quirinale sia sullo stato di diritto repubblicano, sia sulla politica militare. Il Presidente della Repubblica ha la sorveglianza diretta e ultima sua sul Csm che sulle Forze armate. Per questo – come ha giustamente segnalato ieri in un’intervista Giorgio Vittadini – il suo ruolo si profila oltremodo impegnativo.

Una Repubblica in cui singoli membri del governo o singoli magistrati cominciassero a sottrarre le grandi decisioni alla sovranità costituzionale perderebbe in fretta la sua natura democratica. Esattamente come una Repubblica in cui finisse per governare chi ha perso le elezioni o chi non le ha mai attraversate.

Nella Francia della “liberté republicaine” Macron (non il primo fra i neo-eletti all’Eliseo) ha subito indetto elezioni politiche per allineare l’Assemblea nazionale all’esito delle presidenziali: e i francesi – come da consolidata prassi elettorale – gli hanno accordato un consenso parlamentare maggioritario, pur non avendogli mai dato un supporto personale superiore al 23 per cento. In Gran Bretagna il neo-premier Boris Johnson (in carica unicamente grazie al supporto di 100mila iscritti al partito Tory) non fa mistero di voler indire “snap-elections” subito dopo la Brexit fissata per il 31 ottobre: e questo avviene senza minima discussione nel più antico regime liberale della storia. Nella Spagna beniamina d’Europa – spesso additata agli italiani come modello – si sono tenute cinque elezioni generali negli ultimi 11 anni, due volte in sei mesi (alla vigilia di Natale del 2015 e poi nel giugno 2016).

Anche nell’Italia della prima repubblica si è votato frequentemente in via anticipata: costantemente dall’avvio della sesta legislatura (1972) all’avvio della decima (1987). Anche all’avvio della seconda repubblica la prima affermazione elettorale di Silvio Berlusconi avvenne solo due anni dopo il voto del 1992 e fu contraddetta dopo altri due anni soltanto ancora alle urne, da cui uscì vincitore Romano Prodi. Il quale nel 2006 accettò di governare dopo una vittoria elettorale “da 24mila voti” ma già due anni dopo gettò la spugna: fra l’altro per consentire al neonato Pd di misurare subito la leadership di Walter Veltroni. Il Pd perse nettamente il primo di tre voti politici (non vincendone nettamente mai nessuno in 12 anni di vita, pur avendo di fatto guidato il Paese dal 2011 al 2018). La democrazia però è questo è solo questo: dal referendum che affossò De Gaulle nel 1969 a quello che decretò la fine di James Cameron nel 2016. Dai quattro mandati presidenziali concessi – nelle urne – dall’America a Franklin Delano Roosevelt per battere Hitler, a Winston Churchill congedato – nelle urne – il giorno dopo il V-Day del 1945.

La democrazia è sempre il voto quando le circostanze impongono il chiarimento diretto di politica generale presso il popolo sovrano. Per esempio: nell’autunno 2011 una democrazia sovrana e adulta in Italia avrebbe deciso nelle urne come affrontare molteplici versanti di crisi. Ma ormai è acqua passata. O forse no.