Il 31 gennaio ha debuttato a Roma una nuova produzione di «Aida», opera conosciutissima anche in quanto per decenni quasi ogni anno in scena nella stagione estiva alle Terme di Caracalla in versioni “kolossal”. Teatro pienissimo, in ogni ordine di posti, con sedie aggiunte dopo l’ultima fila di platea.



Su «Aida», una delle più belle e più compiute opere di Giuseppe Verdi, grava, da decenni, una maledizione analoga a quella, per restare in tema egiziano, di Tutankhamon: essere considerata un «kolossal» da circo a tre piste, o giù di lì, per spettacoli ciabattoni in arene estive in cui l’apparizione del cammello e, se possibile, dell’elefante è più importante di ciò che avviene nella fossa dell’orchestra e lo strillo (ove non l’urlo) importa più dei «legati», dei «diminuendo» vocali, e delle «mezze voci» sia dei solisti che del coro. In spettacoli all’aperto, sia che ci sia o che non ci sia amplificazione «ambientale», i concertatori tendono a una direzione pompieristica e i cantanti a gridare dall’inizio alla fine.



Andiamo con ordine. Il vostro «chroniquer» ha avuto modo, nel lontano gennaio 1969, di essere ad alcune rappresentazioni al Teatro d’Opera Italiano del Cairo (dove nel 1871 «Aida» debuttò in quanto commissionata da Khedivé in occasione di un doppio evento – apertura del Canale di Suez e inaugurazione di un teatro all’italiana, dato che – pochi lo sanno – la nostra lingua era quella parlata a corte; Re Faruk fu il primo della dinastia a saper parlare arabo) : un gradevole teatro con barcacce e palchetti simile al Valle di Roma per poco più di 700 posti, dove la compagnia viaggiante della Staatsoper Unter den Linden di Berlino (allora l’Egitto sperimentava il socialismo reale della Germania Est) metteva in scena allestimenti minimalisti, da «tournée» in Paesi poveri, di opere di Berg (comprensibile) e di Orff (curioso in quanto l’autore di «Carmina Burana» è stato il «compositore di corte» nel Reich di Hitler). Il Teatro d’Opera Italiano del Cairo è stato distrutto da un incendio nel 1970 e ricostruito negli anni Novanta del secolo scorso con un’architettura modernissima ed efficiente.



«Aida» è un’opera quasi intimista (con qualche, peraltro limitatissima, concessione ai due eventi per cui era stata commissionata). Verdi vi incorporò alcune delle principali lezioni della «musica dell’avvenire» wagneriana (non aveva ancora assistito al debutto italiano, a Bologna, del «Lohengrin», ma aveva letto gli scritti teorici di Wagner): soprattutto, l’integrità del continuo orchestrale, la cui ricchezza smagliante, in ciascuna delle sette scene in cui si articolano i quattro atti dell’opera, non è mai interrotta da «pezzi chiusi» (arie, duetti, terzetti) di maniera.

Di recente questa tradizione (meno colossale di quelle convenzionale) è stata in parte recuperata. Ad esempio, nel 2000 l’Opera di Roma è riuscita a fare il “tutto esaurito” rispolverando un’edizione “minimalista”, concepita negli anni Settanta da Mauro Bolognini (quando John Cox approntava un’«Aida» analoga al Metropolitan di New York). Scene essenziali (su due livelli) dello scultore Mario Ceruli, coreografia ieratica di Ricardo Nunez (e con tutti i nudi, e semi-nudi, allora di moda), giochi di luce funzionali, specialmente importanti quelli per distinguere il pieno meriggio del secondo atto (quello, per intenderci, del trionfo) dalla notte fonda del terzo (quello, invece, del Nilo). Forse anche in quanto facilmente «portatile» ed «esportabile», nell’arco di tre lustri l’Opera di Roma è riuscita a venderla od affittarla a tanti altri teatri – oltre una quindicina.

Altra iniziativa importante quella della Fondazione Toscanini che dal 2000 al 2003 ha portato in giro un’«Aida» quasi come la avrebbe voluta Verdi; il «quasi» è d’obbligo a motivo di alcuni tagli ai ballabili (per ragioni di economia e di trasportabilità). L’allestimento nasce da un’idea geniale di quel diavolaccio di Franco Zeffirelli (autore di regia e scene; i bei costumi sono di Anna Anni), il quale si è spesso cimentato con maxi-Aide. È stata pensata per il Teatro di Busseto, la cui platea ha 66 posti (e altrettanti ne contengono i palchi). Scene dipinte di un Egitto vagamente art déco, una recitazione accuratissima da parte di un cast giovane (se ne alternavano tre) scelto tramite una selezione internazionale, cinquanta brillanti (e giovani) orchestrali, danze ridotte al minimo (ma con Carla Fracci nel ruolo di sacerdotessa). Non era un’«Aida» iconografica: puntava sul dramma d’amore e gelosia (con un Amneris principessina capricciosa e impudente) più che sul contesto politico-spettacolare. Questa lettura fa sì che si comprenda ciascuna parola (anzi ciascuna intonazione) di un libretto meno banale di quanto presentato nella vulgata su Verdi. Anche l’organico orchestrale è riportato ai 50 orchestrali verosimilmente in buca al Cairo nel 1871 (non 100 come all’Arena di Verona).

Questa premessa pare essenziale perché la parte musicale dello spettacolo visto e ascoltato incorpora le intuizioni verdiane, grazie soprattutto alla maestria del direttore d’orchestra, Michele Mariotti, il quale ha approfondito gli aspetti più innovativi di una partitura che può essere considerata l’opera più wagneriana di Verdi: il leitmotiv intrecciato dalla splendida introduzione di archi, il sinfonismo orchestrale, la limitata presenza di numeri musicali. Avevo già ascoltato Mariotti dirigere «Aida» a Parigi, in streaming durante la pandemia (spettacolo offerto ai soci dell’Associazione Nazionale Critici Musicali). Il tocco di Mariotti si avverte sin dalla sinfonia, ma è chiarissimo, nel primo atto, alla guida di solista e orchestra in «Numi pietà del mio soffrir» nonché nel duetto con coro con cui si chiude l’opera. Mariotti ha avuto applausi a scena aperta, oltre che nel secondo intervallo, e ovazioni al calar del sipario. Tutti meritati. Ha riportato a Roma il «vero Verdi» come fece una decina di anni fa Riccardo Muti. Da lui nella veste «direttore musicale», ci aspettiamo grandi cose. E sappiamo che non saremo delusi.

Tra le voci, occorre iniziare da Gregory Kunde (Radames), chiamato all’ultimo momento a sostituire Fabio Sartori (ammalato). Appartiene anche lui alla nidiata di giovani tenori americani di agilità che una quarantina di anni fa arrivarono al Rossini Opera Festival; come non dimenticarlo in «Semiramide»? Ora ha 68 anni e ha sofferto di leucemia. Con impegno, ha cambiato vocalità: ora canta Verdi e verismo. Non si poteva non nutrire qualche apprensione. Invece, un’esecuzione molto buona dalla cavatina al duetto finale, passando per il difficile terzo atto. Ottimo l’acuto, senza lo squillo di un trentenne.

Aida era Krassimira Stoyanova, di grande livello specialmente in «O Patria mia, mai più di riverrò». Grande prestazione di Ekaterina Semenchuk, soprattutto nella scena e aria con coro nel primo «quadro» del quarto atto. Vladimir Stoyanov era un efficace Amonastro e Riccardo Zanellato un Ramfis di livello. Sempre ottimo il coro, ora preparato da Ciro Visco.

Non nascondo che avevo timore della regia di David Livermore, soprattutto dopo sue interviste in cui dichiarava di essersi ispirato a «Cabiria», il «kolossal» del 1914 di Giuseppe Pastrone. Per fortuna, qualcuno (forse Mariotti) lo ha trattenuto e questa volta Livermore e il suo «creative team» (ottimi i costumi di Gianluca Falaschi) hanno prodotto uno spettacolo accettabile. Con due seri difetti: a) «Aida» pare svolgersi tutta di notte, mentre il primo quadro del primo atto e tutto il secondo atto sono chiaramente in pieno sole (lo dicono il libretto e, quel che più conta, la musica); b) il Teatro dell’Opera ha un ottimo corpo di ballo, perché ingaggiare venti mimi-ballerini voluti da Livermore (spesa inutile per ballabili scadenti)? Quando certi registi impareranno a rispettare gli autori di testo e musica?

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