Il 18 febbraio, dopo aver visto e ascoltato la nuova produzione dell’Opéra de Paris dell’Aida di Verdi, sono rimato con mixed feelings. Diversi anni fa, un mio amico texano mi disse il significato esatto dell’espressione di gergo mixed feelings, spesso tradotta in italiano con “sentimenti contrastanti”: il senso che si ha quando vede la suocera guidare la propria nuovissima Mercedes vicino a una burrone. Nella produzione, la nuovissima Mercedes era la parte musicale, mentre la suocera che guidava vicino a un burrone era l’allestimento drammatico e visivo.
Ho avuto accesso a questa Aida parigina da Roma a causa di un accordo speciale tra l’Opéra de Parìs e l’Associazione Nazionale Critici Musicali. Tra circa un mese, la produzione sarà mostrata nel canale televisivo musicale franco-tedesco Arte. La produzione era molto attesa per il suo cast eccellente ed il debutto della regista teatrale Lotte de Beer a Parigi. La signora Lotte de Beer si è fatta un nome per le sue innovative produzioni a basso costo nei Paesi Bassi ed è ora direttrice del Volksoper di Vienna.
La sua produzione di Aida non è affatto a basso costo. L’idea di base non è male. La trama è ambientata nel 1871 circa, quando l’opera ebbe il suo debutto al Cairo e tratta di colonialismo: gli egiziani sono la potenza coloniale e gli etiopi i loro poveri sudditi. La messa in scena è, tuttavia, eccessivamente complicata. Aida e Amonasro sono burattini quasi a grandezza naturale come nel teatro giapponese Banruko; tre burattinai li gestiscono e i cantanti (Sondra Radvanovsky e Ludovic Tézier) sono in pigiama nero e cantano dietro di loro. Nellaa scena del trionfo, dove è richiesto un balletto, non ci sono danze, anche se l’Opéra de Paris ha uno splendido corpo di ballo. Invece, ci sono una serie di tableaux vivents: Radamès come Napoleone a cavallo (quale nel ritratto del David), il memoriale di Iwo Jima, la battaglia di Ponte Milvio di Costantino e simili. Mentre il libretto e la musica di Verdi, alternano chiaramente la notte buia e le giornate di sole nelle sette scene dell’opera, la messa in scena sembra essere sempre nella luce del giorno, tranne che nel quadro della tomba. Lì, però, i due cantanti sono in un sepolcro molto affollato di burattini e, presumo, fantasmi a causa della presenza di comparse che disturbano l’ultimo avvincente duetto d’amore. A mio avviso, la messa in scena è un flop assoluto. Spero che l’Opéra di Parigi la metta in magazzino e non la riproponga.
Ben diversa la parte musicale. Il direttore d’orchestra, Michele Mariotti, ha approfondito gli aspetti più innovativi di una partitura che può essere considerata l’opera più wagneriana di Verdi: il leit-motif intrecciato dalla splendida introduzione di archi, il sinfonismo orchestrale, la limitata presenza di numeri musicali. Nel cast, Jonas Kaufmann è stato un superbo Radamès fin dalla sua cavatina al duetto finale. Il suo legato e il suo Fa sono affascinanti. La sua Aida era Sondra Radvanovsky, costretta a cantare dietro un burattino: rese molto meglio nella sua recente interpretazione de Il Pirata di Bellini a Napoli. Ksenia Dudnikova era una potente Amneris con una voce sbalorditiva. Ludovic Tézier (Amonasro) ha guadagnato qualche chilo dall’ultima volta che l’ho visto e sentito alla Scala e ha dovuto cantare un burattino: tuttavia, è andato molto bene. Soloman Howard era un re statuario e Dmitry Belosselskiy un Ranfis nell’abbigliamento di un uomo d’affari del diciannovesimo secolo (forse coinvolto nel canale di Suez).
Sarebbe stato meglio ascoltarla alla radio. Come ai vecchi tempi.
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