La stagione lirica estiva del Teatro dell’Opera di Roma è stata inaugurata il 4 luglio con nuova produzione di ‘Aida’ alle Terme di Caracalla. «Aida a Caracalla» è per il pubblico romano come il cacio sui maccheroni, ossia il pasto quotidiano. Eppure mancava da otto stagioni. E la nuova produzione – curata da Denis Krief per regia scene e costumi, con Jordi Bernàcer in buca, e con Vittoria Yeo (Aida), Alfred Kim (Radames), Judi Katasi (Amneris), Marco Caria (Amonasro), Adriano Sampetrean (Ramfis) e solisti del progetto ‘Fabbrica’ del Teatro (Domenico Pellicola- un Messaggero-, Rafaela Albuquerque – una Sacerdotessa) ed i complessi dell’Opera di Roma per cori e danze- è dirompente ed innovativa. Eppure, alla mezzanotte e mezzo i 4500 spettatori sono scoppiati in applausi – c’erano stati applausi a scena aperta dopo le principali arie- apprezzando anche il bello e ‘rivoluzionario’ allestimento. Segno eloquente che il pubblico sta cambiando. Numerosi i giovani i sala (oltre alle tante autorità di prammatica).



Su “Aida”, una delle più belle e più compiute opere di Giuseppe Verdi, grava, da decenni, una maledizione analoga a quella, per restare in tema egiziano, di Tutankamon: essere considerata un “colossal” da circo a tre piste, o giù di lì, per spettacoli ciabattoni in arene estive in cui l’apparizione del cammello e, se possibile, dell’elefante è più importante di ciò che avviene nella fossa dell’orchestra e lo strillo (ove non l’urlo) importa più dei “legati” e dei “diminuendo” vocali. In spettacoli all’aperto, sia che ci sia o che non ci sia amplificazione “ambientale”, i concertatori tendono ad una direzione pompieristica e i cantanti a gridare dall’inizio alla fine.



 Andiamo con ordine. Il vostro “chroniquer” ha avuto modo, nel lontano 1969, di essere ad alcune rappresentazioni al Teatro d’Opera Italiano del Cairo (dove nel 1871 “Aida” debuttò in quanto commissionata da Khedivé in occasione di un doppio evento- apertura del Canale di Suez ed inaugurazione di un teatro all’italiana, dato che – pochi lo sanno – la nostra lingua era quella parlata a corte; Re Faruk fu il primo della dinastia a saper parlare arabo) : un gradevole teatro con barcacce e palchetti simile al Valle di Roma per poco più di 700 posti, dove la compagnia viaggiante della Staatsoper Unter den Linden (allora l’Egitto sperimentava il socialismo reale della Germania Est) metteva in scena allestimenti minimalisti da “tournée” in Paesi poveri di opere di Berg (comprensibile) e di Orff (curioso in quanto l’autore di “Carmina Burana” è stato il “compositore di corte” nel Reich di Hitler). Il Teatro d’Opera Italiano del Cairo è distrutto da un incendio nel 1970 e ricostruito negli Anni ’90 con una architettura modernissima ed efficiente.



 “Aida” è un’opera quasi intimista (con qualche, peraltro limitatissima, concessione ai due eventi per cui era stata commissionata). Verdi vi incorporò alcune delle principali lezioni della “musica dell’avvenire” wagneriana (non aveva ancora assistito alla “prima” italiana, a Bologna, del “Lohengrin”, ma aveva letto gli scritti teorici di Wagner): soprattutto, l’integrità del continuo orchestrale, la cui ricchezza smagliante, in ciascuna delle sette scene in cui si articolano i quattro atti dell’opera, non è mai interrotta da “pezzi chiusi” (arie, duetti, terzetti) di maniera.

 Di recente questa tradizione (meno colossale di quelle convenzionale) è stata in parte recuperata. Ad esempio, nel 2000 l’Opera di Roma è riuscita a fare il “tutto esaurito” rispolverando un’edizione “minimalista”, concepita negli Anni Settanta da Mauro Bolognini (quando John Cox approntava un’”Aida” analoga al Metropolitan di New York). Scene essenziali (su due livelli) dello scultore Mario Ceruli, coreografia ieratica di Ricardo Nunez (e con tutti i nudi, e semi-nudi, allora di moda), giochi di luce funzionali, specialmente importanti quelli per distinguere il pieno meriggio del secondo quadro del secondo atto (quello, per intenderci, del trionfo) dalla notte fonda del terzo (quello, invece, del Nilo). Forse anche in quanto facilmente “portatile” ed “esportabile”, nell’arco di tre lustri l’Opera di Roma è riuscita a venderla od affittarla a tanti altri teatri – oltre una quindicina.

 Altra iniziativa importante quella della Fondazione Toscanini che dal 2000 al 2003 ha portato in giro un’”Aida” quasi come la avrebbe voluta Verdi; il “quasi” è d’obbligo a motivo di alcuni tagli ai ballabili (per ragioni di economia e di trasportabilità). L’allestimento nasce da un’idea geniale di quel diavolaccio di Franco Zeffirelli (autore di regia e scene; i bei costumi sono di Anna Anni), il quale si è spesso cimentato con maxi-Aide. E’ stata pensata per il Teatro di Busseto, la cui platea ha 66 posti (ed altrettanti ne contengono i palchi). Scene dipinte di un Egitto vagamente art déco, una recitazione accuratissima da parte di un cast giovane (se ne alternavano tre) scelto tramite una selezione internazionale, cinquanta brillanti (e giovani) orchestrali, danze ridotte al minimo (ma con Carla Fracci nel ruolo di sacerdotessa). Non era un “Aida” iconografica: punta sul dramma d’amore e gelosia (con un Amneris principessina capricciosa ed impudente) più sul contesto politico-spettacolare. Questa lettura fa sì che si comprenda ciascuna parola (anzi ciascuna intonazione) di un libretto meno banale di quanto presentato nella vulgata su Verdi. Anche l’organico orchestrale è riportato ai 50 orchestrali verosimilmente in buca al Cairo nel 1871 (non 100 come all’Arena di Verona).

  Un’altra “Aida” spesso in giro per l’Italia è quella dei Fratelli Colla. E’ per marionette- quindi, ancora più mini di quella della Fondazione Toscanini, quasi bikini: non mancano, però, cavalli, cammelli, dromedari ed anche elefanti, nonché 300 marionette in scena (quasi tante quanto le comparse all’Arena di Verona). E’ un’”Aida” ridotta anche nel testo: parti recitate si alternano a arie, duetti, concertati e balletti per uno spettacolo di circa due ore con un sorprendente “lieto fine” – un terremoto fa crollare il tempio, la reggia dei Faraoni e la tomba dove Aida e Radames sono stati sepolti ed i nostri eroi veleggiano sul Nilo verso le etiopiche foreste imbalsamate. Dunque, una leggera ironia serpeggia dall’inizio alla fine, mentre una registrazione del 1949 (con i limiti delle tecniche dell’epoca) accompagna l’evolversi dei complicati eventi: l’allora 82nne Arturo Toscanini dirige l’orchestra RCA con uno dei migliori Radames della storia del disco (Richard Tucker), un Giuseppe Valdengo in gran forma nel ruolo di Amonasro, una Herva Nelli (Aida) dignitosa ed una Eva Gustavson (Amneris) un po’ dimessa. Se si portano i binocoli si vede come in Celeste Aida le labbra della marionetta Radames passano dal si bemolle in pianissimo ad un “forte” e come quelle dell’Amonasro di legno mimano il “legato” in Tu al Re.

 Occorre situare in questo contesto l’allestimento di ”Aida” vista nel 2005 alle Terme di Caracalla  Non c’era la cartapesta della produzione realizzata a Caracalla dagli Anni Trenta agli Anni Cinquanta: la vidi e l’ascoltai nel 1954: scene di Nicola Benois, regia di Angelo Questa, grandi voci (Simoniato, Pedrini, Del Monaco, Gobbi), non c’erano elefanti ma cammelli, cavalli, dromedari ed anche una scimmia. Non c’era neanche la struttura hollywoddiana in plastica creata da Camillo Cruciani per sbalordire il pubblico degli Anni Cinquanta- ha resistito sino ad Anni Settanta ben inoltrati. L’impianto era interamente high tech: proiezioni di grafica compuretizzata (in linea con la musica oltre che con l’azione scenica) non solo su sei quinte e su un sipario mobile, ma soprattutto sulle rovine. Un allestimento che ci si porta appresso in un paio di cd-rom. Era frutto dell’ingegnosità di due italiani quasi ignoti (od ignorati) in Patria – Paolo Miccicché e Antonio Mastromattei – e della grafica di Patrick Watkinson. .La tecnologia – lo sappiamo –  abbassa i costi: chi studia l’economia delle arti sceniche , e dell’opera lirica in particolare, conosce la “malattia di Baumol” (dal nome dell’economista Usa William Baumol) secondo cui senza il supporto pubblico il teatro in musica è destinato a perdere competitività relativa proprio perché non può avvantaggiarsi del progresso tecnologico che in forma molto limitata. Negli Stati Uniti, dove la lirica, è finanziata in gran misura dai privati, si cerca di acciuffare tutto il progresso “abbassa costi” che si può.

L’’Aida’ concepita da Denis Krief è intimista (come quella di Zefferilli del 2000-2003 che verrà riproposta a Busseto in autunno nell’ambito del festival verdiano di Parma) ma almeno a prima vista poco tecnologica. Ci sono i segni dell’Egitto, quali la Piramide che diventa tomba, e, anche al fine di facilitare le voci, l’azione si svolge in una certa misura all’interno di cubi nel cui fondali sono riprodotti copie delle scene su tela che caratterizzarono il debutto al Cairo nel 1871), ma viene rievocato il Palais Garnier – simbolo del Secondo Impero, contemporaneo, quindi, alla concezione di ‘Aida’- nel quadro del trionfo. Le comparse limitate all’indispensabile e, ovviamente, niente animali in scena. I costumi sono atemporali, le danze con la coreografia di Giorgio Mancini (quelle del secondo quadro del secondo atto ispirate a geroglifici egiziani) essenziali, molto curate la recitazione e le luci. In questo quadro atemporale, si svolge il dramma di un triangolo amoroso di valenza universale in cui Amneris è il personaggio con maggior sviluppo psicologico.

In buca, Jordi Bernàcer, ammirato di recente il ‘La Cenerentola’ di Rossini estrae, grazie anche alla bravura dell’orchestra, tutta la ‘musica dell’avvenire’ nella partitura: il sinfonismo, i temi conduttori ed i loro intrecci, il declamato cantato che sfocia in arie, ariosi, duetti e terzetti (elegante la misurata perfezione di quello del terzo atto). Perfetta, nell’enorme teatro all’aperto, l’esecuzione del ‘pianissimo’ per archi iniziale e del pari ‘pianissimo’ finale. Vere chiavi per comprendere l’intimismo della partitura.

Vittoria Yeo e Alfred Kim, Aida e Radames, sono due coreani da anni sui palcoscenici europei. La Yeo ci dà un’Aida appassionata e tormentata; applaudita a scene aperta dopo Numi Pietà Patria Mia ha avuto con Kim, e Caria, il momento migliore nel terzetto del terzo atto – quello de Le Gole di Napata! – del doppio tradimento per amore. Kim è un Radames alla Tucker: voce chiara e bella, unita ad un ottimo legato. E’ stato applauditissimo dopo la scena ed aria di apertura Se Quel Guerriero io Fossi. Judit Kurtasi è un mezzo soprano romeno che, come voleva Verdi, può scendere a registri bassi, particolarmente in Già i Sacerdoti Adunasi del quarto atto: molto belli i suoi bemolle. Mario Caria è un Amonasro a tutto tondo. Molto buoni tutti gli altri.

In breve un grande spettacolo da rivedere per apprezzarne le sfumature.