Grande serata il 23 gennaio al Teatro dell’Opera di Roma. Sala infiorata e ben 190 diplomatici accreditati presso la Repubblica Italiana e lo Stato Città del Vaticano in platea e nei palchi. Ospiti del Presidente della Fondazione e Sindaca di Roma Virginia Raggi con la quale avevano avuto, nel pomeriggio, una riunione nella sala degli Orazi e dei Curiazi in Campidoglio. Lo spettacolo, che ha ricevuto al calar del sipario oltre dieci minuti di applausi, ha dimostrato che il Teatro dell’Opera è il vero “fiore all’occhiello” di una capitale in cui – come è noto – tanti servizi pubblici (dalla nettezza urbana ai trasporti) non funzionano come dovrebbero.
Era in scena la prima rappresentazione della nuova produzione I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, titolo tanto prezioso quando raro. A Roma è solo la quarta volta che viene messo in scena: la prima, nel 1967, sfoggiava Claudio Abbato nel podio e Luciano Pavarotti, Giacomo Aragall e Margherita Rinaldi in scena (con la regia di Mario Missiroli); la terza era un ‘import’ dal Massimo Bellini di Catania.
Infatti, I Capuleti ed i Montecchi sono una delle opere relativamente meno rappresentate del peraltro scarno catalogo di Bellini, troncato – come è noto – dalla morte a solo 34 anni. Hanno poca fortuna principalmente sulle scene italiane (sono in repertorio corrente a Zurigo, Londra e New York) per due ragioni: le difficoltà vocali (a cui il vostro “chroniqueur” aggiunge quelle orchestrali) ed una drammaturgia che poco o nulla ha a che fare con l’immaginario popolare della tragedia shakespeariana. Non è questa la sede per entrare nella questione filologica se ed in che misura Bellini e Romani (il librettista) avessero avuto accesso al testo del Bardo. Il libretto (comunque di grande livello) si basa su racconti degli amanti di Verona antecedenti non solo Shakespeare ma anche al Bandello (la fonte del Bardo). La fonte è probabilmente il Da Porta (a cui si era ispirato il Bandello). Non è chiaro se ed in quale traduzione Romani avesse avuto accesso al testo Shakespeare. In effetti, una tragedia d’azione come Romeo e Giulietta non si addice al belcanto poiché le convenzioni di questo stile fanno perno sulla melodia e sull’agilità vocale per esaltare le atmosfere.
In I Capuleti ed i Montecchi non c’è il ritmo travolgente di Romeo e Giuletta di Shakespeare; gran parte dei “fatti”, anzi, sono avvenuti prima che si alzi il sipario; Romeo è già in esilio a Padova (ma a capo di “mille” seguaci) e rientra a Verona travestito da Ambasciatore; all’amore tra i due rampolli di famiglie avverse ed a quello di Tebaldo per Giulietta sua promessa sposa, si aggiunge una dimensione ignota a Shakespeare ed a Bandello ma in cui Bellini rispecchia la propria autobiografia: la figura di Capellio come “padre padrone”. Il dramma, quindi, diventa borghese, con velature tipiche del primo scorcio dell’Ottocento.
La tragedia viene sublimata dall’intrecciarsi di due voci femminili (un mezzo ed un soprano – nell’impostazione originaria Bellini avrebbe voluto due soprani) contrappuntato da un tenore di coloratura (Tebaldo), un baritono di agilità (Lorenzo, medico non frate come in Shakespeare) ed un basso (il “padre padrone” Capellio). C’è, però, anche l’orchestra, il cui ruolo viene spesso sottovalutato nei lavori di Bellini precedenti il capolavoro estremo (I Puritani di Scozia).
E’ stato il direttore musicale del Teatro dell’Opera, Daniele Gatti a proporre la messa in scena del raro titolo belliniano. Ha detto che, dopo tanti anni di Verdi, Wagner, Beethoven e Mahler, voleva tornare al “bel canto” da cui era partito. In effetti, grazie alla capacità dell’orchestra del Teatro dell’Opera, Gatti voleva evidenziare un Bellini orchestratore di grandi dimensioni. Lo si ascolta dalla sinfonia iniziale che ha uno schema rossiniano, ma con il piglio di Gatti e grazie all’orchestra ricorda le ouverture di Beethoven, ad esempio Egmont o Coriolan, per l’afflato etico ed eroico. Memorabile anche l’interludio del secondo atto, denso di presagi romantici. Direzione splendida che mostra lati poco noti di Bellini anche nell’accompagnamento ai recitativi ed ai vari numeri musicali.
Denis Krief, autore di regia, scene, costumi e luci, utilizza una scena unica per i due atti e sei quadri dell’opera. Consapevole che il lavoro era stato concepito per sale più raccolte di quella del Teatro dell’Opera, la scena in legno diventa una vera e propria cassa armonica che consente ai cantanti di dare sfoggio al belcanto senza forzare le voci. L’ambientazione è contemporanea e l’azione scenica pone l’accento sulla universalità dei valori rappresentati nell’opera. Tanti i momenti di rilievo; ad esempio, la regia della scena e duetto tra Romeo e Tebaldo nel secondo atto, in cui si mostra tutta la modernità del lavoro.
Il peso dello spettacolo, però, grava molto sulle spalle di chi dà corpo e voce ai due amanti, come si conviene al “bel canto”. Una squadra giovane ed, in parte, ancora poco nota. Romeo è il mezzo soprano Vasilisa Berzhanskaya che proviene dai programmi per giovani artisti del Bolšoi e del Festival di Salisburgo; nonostante la giovane età è già in piena e grande maturità vocale ed un’ottima attrice. Giulietta è Mariangela Sicilia che le tiene testa nello svettare verso cime ardimentose (quelle della scrittura belliniana). Oscuro e dominatore il Capellio di Alessio Cacciamani. Bravo il Lorenzo di Nicola Ulivieri. Una vera scoperta per Roma, e per chi scrive, il Tebaldo di Iván Ayón Rivas, un giovane tenore peruviano dallo squillo imponente, dal timbro chiarissimo e di una notevole agilità.