Nel 1921 nasceva a Trieste Giorgio Strehler; quarantacinque anni fa si era spento a Roma Luchino Visconti. Nel 2022 Pierluigi Samaritani avrebbe compiuto ottant’anni, e mezzo secolo or sono Luca Ronconi dava al teatro il suo primo capolavoro, l’Orestea di Eschilo, nel 1982 concludendo a Firenze, con Il crepuscolo degli dei, quel ciclo dell’Anello wagneriano che Visconti non aveva potuto dirigere.



Proprio nel 2021 è mancato a novant’anni Sylvano Bussotti, singolare compositore ed elegante regista. Non è il gioco dei ricordi, non è una caccia agli anniversari del 2021 e del 2022. Sono alcuni frammenti di memoria, forse alcuni barbagli di gloria che ci sono venuti alla mente riflettendo sui più recenti e chiacchierati spettacoli di teatro d’opera.e sulle regie che li hanno corredati. A Roma Julius Caesar di Giorgio Battistelli con la regia di Robert Carsen; alla Scala il Macbeth di Verdi curato da Davide Livermore; a Napoli l’Otello di Verdi con la regia di Mario Martone. E nei canali televisivi di specializzazione classica ci è capitato di veder da poco un Simon Boccanegra da Salisburgo diretto da Valerj Geergev e messo in scena da Andreas Kriegenburg o un paio di Tosche, una diretta a Baden-Baden da sir Simon Rattle con la regia di Philipp Himmelmann, l’altra ad Aix-en-Provence con la bacchetta di Daniele Rustioni e la mise en scène di Christophe Honoré.



Sarebbe facile, nel parlare di tali spettacoli, cadere nella reprimenda critica e nella conseguente accusa di passatismo: per cui lasciamo da parte Giulio Cesare come antesignano dei leader populisti; o lord e lady Macbeth che copulano furiosamente in un ascensore a gabbia; o il coro del Simone interamente dotato di cellulari i cui Sms si riflettono su un megaschermo; o la doppia Flora Tosca in scena (una giovane, l’altra settantenne) o la fucilazione di Cavaradossi e il suicidio di Tosca con la pistola da mattatoio.  O infine, per andar più indietro, il Samson et Dalila uso grand macabre sadomaso della Fura dels Baus (vi era stato chiamato un “esperto di bondage”) ovvero il Don Giovanni di Graham Vick, con la dissacrazione della michelangiolesca Creazione d’Adamo ovvero ancora il Rigoletto, collocato tra camorra e campo nomadi, di Damiano Michieletto. Lasciamoli per ora in un angolo come eventi forse deprecabili e per i quali vale comunque una parafrasi di ciò che dice Figaro a Susanna: “possibile è la cosa” e se la direzione artistica “il vuol, possibilissima!”. Ormai neppure più stupisce che ogni regia d’opera faccia parlare di sé più dell’esecuzione musicale e che ogni inaugurazione di stagione sia una gara verso un succès de scandale sempre più clamoroso.



La nostra riflessione ha un carattere più ampio e forse ancor più allarmante. E verte sul  rifiuto da parte della moderna messa in scena d’opera (e beninteso di teatro prosa, ma il discorso sarebbe troppo vasto) di confrontarsi con la storia. Sia ben chiaro: non stiamo invocando un ritorno a Visconti o addirittura a Margherita Wallmann (la cui Norma con le scene di Salvatore Fiume era peraltro un capolavoro). Un regresso al passato non è possibile, non è auspicabile. Tuttavia dal grande Luchino, da Strehler, da De Lullo, da Faggioni, da Samaritani, da Enriquez, da Ronconi una lezione magisteriale è venuta: l’istanza di interrogare a fondo la storia – un’epoca, un mito, una vicenda privata o pubblica – quella storia che in Don Giovanni come in Semiramide, in Anna Bolena come in Rigoletto e Don Carlos, nella Tetralogia come nel Rosenkavalier e nel Wozzeck,  ha le sue epifanie (di realtà o in finzione, non importa) e di trarne ragioni di scandaglio umano, di memoria dinamica e di monito morale. Scriveva Giovanni Paolo II: ‘‘In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, [l’arte] è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione” (Lettera agli artisti, 4 aprile 1999). Le macerazioni di Filippo II nel suo studio all’Escorial, le mortali ansie di Violetta nella Parigi di Luigi Filippo, la sconfitta amara del dio Wotan, la giovinezza sfiorente della Marschallin in piena Finis Austriae, il cinismo erotico del rinascimentale Duca di Mantova, lo strazio fatale di un “ultimo” come il soldato Wozzeck nella Repubblica di Weimar: ecco tutto ciò e molto altro, ha il suo potere drammatico e catartico in quanto è posto in un tempo, in un luogo, in un contesto, in un Sitz in Leben. Attenti: uno spostamento temporale non è sempre da deprecare: I vespri siciliani collocati da Franco Enriquez all’epoca de Il gattopardo, la Butterfly ambientata da Ken Russell nella guerra del Viet-Nam, la Salome che Patrice Caurier e Moshe Leiser ispirarono a I sequestrati di Altona di Vittorio De Sica (da Sartre), i carri processionali di Luca Ronconi nel Don Carlos alla Scala, erano esiti di una intelligenza storica, di un riesame critico e di un approfondimento psicologico eccezionali.

Ciò che avviene oggi è diverso: la storia è abiurata, respinta in quanto lettera e in quanto metafora. Ad essa viene con forza fatta subentrare l’attualità da TG di prima serata, la cronaca da “sbatti il mostro in prima pagina”. Ciò che non è “al di là del quotidiano” paventato da Giovanni Paolo II; e l’umanità è travolta dalla comunicazione ideologica, l’allusione sostituita dall’esibizione, la scultura del personaggio nell’interprete (vogliamo parlare di Maria Callas?) tralasciata in favore dell’ovvietà gestuale. La bellezza in tutte le sue accezioni (da quella sublime d’Orfeo a quella inquietante di Lulu) viene sostituita dalla laidità,  dall’ambiguità, dal grottesco, dal triviale: meglio dalla riduzione della persona umana ai suoi istinti più elementari, ai suoi comportamenti più bassi. Un giovane metteur en scène poco tempo fa deprecava che sulla partitura musicale di un melodramma non si possa “metter le mani” come si fa ormai sui testi del teatro di prosa, da Euripide a Ionesco. Spia (d’un rosso lampeggiante) di una realtà ancor più pericolosa di quelle finora esposte. Scriveva Fedele D’Amico nel 1976 in memoria di Luchino Visconti: “L’operazione di Visconti è consistita nel prendere il melodramma per quello che storicamente è stato e nel riconoscere che i suoi significati risiedono in valori non già celati in forme bisognose d’indulgenza da faticosamente giustificare in base a tinture di tornasole fornite sottobanco […] ma affidate a forme adeguatissime: quelle appunto monumentali, popolari, irrealisticamente attendibili in cui il disprezzato pubblico l’aveva sempre identificato. Perciò l’ultimo schermo tra melodramma e cultura che ancora reggeva è caduto”. Ciò cui assistiamo oggi è un viaggio (forse un treno piombato) di ritorno, una nuova sfiducia nel melodramma, il rialzarsi di un nuovo schermo: il mondo e l’arte che esso melodramma rappresenta è, per taluna intelligentsia, obsoleto, non attuale, non adeguato alla cultura, alle idee del terzo millennio, bisognoso di quell’indulgenza di cui parlava D’Amico, d’una “rimessa a modello” che rivolti, ritagli e ricucia la vecchia zimarra di Bellini, di Verdi di Puccini. Che a Norma o alla Stuarda o a Violetta o a Brunilde o a Isotta faccia un lifting di quelli che levano due secoli. Con Zola alziamo il più violento j’accuse contro una tal esegesi, come Murat gridiamo “tirez au coeur”, ma salvate l’opera da sarti e chirurghi più simili a Mengele e Frankenstein che a Visconti, a Strehler, a Ronconi.  Perché, se procederemo incuranti in tal loro precipitosa direzione, non mancherà troppo tempo a quando riscriveremo la Divina Commedia nel linguaggio degli Sms e di Whatsapp.