Ci sono voluti più di cento anni perché Kát’a Kabanová arrivasse a Roma, ma la sera del 18 gennaio, in un Teatro dell’Opera non pienissimo a causa della pandemia è stata salutata, dopo circa due ore di serrato spettacolo (in cui i tre atti sono stati senza intervallo), con grande entusiasmo dal pubblico: applausi ed acclamazioni. In questi ultimi anni, la ho vista, ascoltata e recensita in produzioni al Massimo Bellini di Catania, al Regio di Torino ed al San Carlo di Napoli.



Ma Roma è sempre stata avara con Leoś Janáček. Dei sette capolavori assoluti del compositore moravo, ha messo in scena unicamente la sua prima opera Jenùfa nel 1952 e nel 1976, mentre altre fondazioni liriche hanno presentato, nell’arco di più anni, cicli quasi completi.

Janáček è ancora oggi poco noto al pubblico italiano, nonostante sia, con Richard Strauss e Benjamin Britten, uno del maggiori autori di teatro in musica del Novecento. Nato nella cittadina di Příbor in Moravia (dove ebbe i natali anche Sigmund Freud), nel 1854, visse quasi tutta la vita a Brno, capitale di una regione allora parte dell’Impero Austro-Ungarico, ed oggi regione meridionale della Repubblica Ceca. Brno è a circa metà strada tra Vienna e Cracovia – il cuore quasi di quell’area dell’Europa centrale dove la Grande Guerra apportò i maggiori cambiamenti ai confini geografici e politici. Lì vi era il carcere dove è stato Silvio Pellico.  Per decenni, Janáček fu essenzialmente un didatta e, molto religioso, compose principalmente musica dello spirito o ispirata a tradizioni locali. A 50 anni circa, nel 1904 (quasi contemporaneamente alle prime assolute di Madama Butterfly di Puccini e di Salome di Strauss), nella sala da tè (adattata a teatro) del maggior caffè di Brno venne rappresentato il suo primo capolavoro Jenùfa – oggi la città dispone di tre teatri di cui il maggiore (1.300 posti) porta il nome del compositore. La partitura di Jenùfa era stata respinta dal Teatro Nazionale di Praga, dove venne rappresentata solo nel 1916 dopo forti rimaneggiamenti imposti dalla censura. Jenùfa diventò un successo europeo in seguito alla rappresentazioni a Vienna nel 1918 (proprio mentre l’Impero era sul punto del tracollo), nella traduzione di Max Brod in tedesco (lingua in cui le opere di Janáček sono state eseguite per decenni, al di fuori della Moravia). Janáček visse sino al 1928; nell’ultima fase della sua vita in un’Europa in rapida trasformazioni ebbe meritatissimi riconoscimenti (laurea honoris causa, ammissione all’Accademia Prussiana delle Arti). Per quanto, tra le «scuole» della piccola Brno, si considerasse vicino a quella musicale russa sviluppò un linguaggio modernissimo che, al di fuori dell’Europa centrale, venne compreso solamente dopo la seconda guerra mondiale, grazie a direttori come Sir Charles Mackerras, James Conlon, Lothar Koenigs, David Robertson ed, in Italia, Marco Angius. Nella New York degli Anni Settanta, i lavori di Janáček trovavano casa alla New York City Opera, considerata tra lo sperimentale e il popolare, non al Metropolitan.



La fortuna di Janáček in Italia è stata tardiva. Se ne eseguivano la cameristica e la Sinfonietta, ma si dovette aspettare sino al 1936 per la prima esecuzione (radiofonica) di Jenùfa ed al 1941 perché La Fenice la mettesse in scena. Non che la forte carica innovativa non fosse apprezzata dagli specialisti: in un saggio del 1957, Massimo Mila ha scritto che egli stesso, Gianandrea Gavezzani e Fedele D’Amico «avevano dato l’allarme: siamo alla presenza di un grande, una specie di Mussorgskij moravo, con in più le esperienze musicali recenti, da Strauss all’espressionismo, fino ai confini della crisi atonale». Negli Anni Cinquanta, Mila ha anche detto: se Janáček fosse stato francese, oggi sarebbe importante e famoso quanto Ravel. Tuttavia, solo negli Anni Settanta, le sue opere vengono rappresentate pure al di fuori dei pochi enti lirici principali della Penisola, giungono nel circuito lombardo ed in quello emiliano-romagnolo, arrivano nei teatri siciliani. Unicamente negli Anni Ottanta e Novanta, vengono eseguite in moravo (con l’ausilio essenziale dei soprattitoli) ed in edizioni critiche.



Ci sono due aspetti caratteristici del teatro in musica di Janáček, ambedue si colgono bene in Kát’a Kabanová e vengono messi in risalto in questa edizione. In primo luogo, come sottolinea il suo compatriota Milan Kundera (che meglio di molti di noi può apprezzare l’impasto tra vocali, consonanti e note), la coesistenza di più emozioni contraddittorie in spazi limitatissimi crea una semantica originale in cui si hanno, parallelamente, “la inattesa contiguità” e la “polifonia” delle emozioni. In secondo luogo, una struttura musicale fondata sull’alternanza di frammenti differenti e contradditori nello stesso movimento (nonché insistentemente reiterati come avverrà più tardi nella musica dodecafonica), con l’inserimento di abbandoni lirici unicamente in certi momenti specialmente liberatori (come nell’ultima scena di Kát’a Kabanová). Anche i tempi ed i metri si alternano con frequenza insolita, rompendo con l’unità emotiva dei movimenti della musica dell’Ottocento. Ciò richiede un maestro concertatore che sappia fondere stilemi del primo Novecento con una forte carica espressionistica e stili della musica contemporanea e della dodecafonia. Nelle voci, si accentua la melodia del parlato con occasionali ariosi (quali quello della protagonista nel terzo atto di Kát’a Kabanová). Il trattamento dell’orchestra è modernissimo: l’organico è molto nutrito (al Teatro dell’Opera, parte dell’orchestra era nelle barcacce dei palchi di platea) ma è trattato come un grande ensemble cameristico in cui strumentisti o gruppi di strumentisti dialogano tra loro ed hanno spesso il ruolo di solisti.

Le opere di Janáček sono di solito brevi (tre atti di circa cento minuti) e fortemente teatrali. Kát’a Kabanová tratta di un fattaccio di provincia. Non è questa la sede per entrare nella complessità delle situazioni e dei sentimenti, nonché del significato politico. Sono temi che richiedono un saggio perché nella breve storia di una vecchia madre ricca ossessiva verso il figlio e la nuora (indotta a togliersi la vita) si riassume non solo l’ipocrisia di una società ma l’intero “secolo breve” di progressiva e faticosa liberazione della donna da una condizione subordinata. In un piccolo centro bigotto, dove domina sua suocera Kabanicha (intenta, tra un paternostro e l’altro, in una relazione sessuale con il mercante Dikoj), ha un marito imbelle e forse impotente, Tichon, ed è amata in segreto dal bel Boris. Ai margini del clima pesante del villaggio, la sua migliore amica, la trovatella Varvara, ha una relazione amoroso-sessuale fresca e piena con il giovane professore di chimica Kudrjás. Durante un viaggio d’affari di Tichon, Varvara dà a Kát’a la chiave del luogo dove si incontra con Kudrjás. Non sapremo mai se il rapporto tra Kát’a e Boris va al di là del platonico. Il rimorso, però, è tale che al ritorno di Tichon, e nel corso di un uragano, Kát’a si confessa adultera. Trova sollievo solo gettandosi del Volga, mentre Kabanicha ringrazia i presenti per la collaborazione data nel risolvere il caso aperto dalla confessione della nuora. Ed il villaggio torna alla bigotteria di sempre.

L’opera richiede un cast numeroso (molti sono meri comprimari) i cui protagonisti siano cantanti-attori che sappiano perfettamente cantare in moravo. Janáček ha poi una distinta preferenza per i soprani drammatici, i mezzo soprani ed i tenori con un registro di centro.

A Roma, è stato proposto un nuovo allestimento in coproduzione con la Royal Opera House Covent Garden di Londra. Lo spettacolo, firmato per la regia da Richard Jones, ha vinto l’Olivier Award nel 2019 come miglior nuova produzione d’opera. Sarebbe dovuta andare in scena a Roma la scorsa stagione lirica che è in gran parte saltata a ragione della pandemia. Scene e costumi sono di Antony McDonald, le luci di Lucy Carter, i movimenti coreografici di Sarah Fahie. Un allestimento scarno e terso portato ai nostri giorni. Con pochi elementi scenici, e molta recitazione, la vicenda si svolge in un ambiente degradato, quasi una periferia in cui vengono accentuati i miti ed i riti della piccola borghesia più gretta, in cui il mondo che circonda Káťa (tra cui lo stesso Boris) la distrugge. Si percepiscono i conflitti sociali di un mondo autoritario e i drammi interiori della protagonista sino alla tragedia finale.

Ottima la prova dell’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma diretta dall’americano Robert Robertson. Sulla base dell’edizione critica di Sir Charles Mackerras, strumentisti e gruppi di strumentisti dialogano tra loro come solisti e danno un colore cupo alla tragedia evidenziando i momenti luminosi nelle scene tra le due coppie di giovani del secondo atto. Il coro, guidato da Roberto Gabbiani, fa, in alcuni momenti, da sottofondo allo svilupparsi della tragedia.

Tra le voci spicca la protagonista: Corinne Winters è un soprano assoluto che affronta un ruolo impervio passando agevolmente da momenti lirici ad altri altamente drammatici e mostra una grande teatralità. Come spesso in Janáček, ci sono due tenori, con timbri leggermente diversi. Lirico, e leggermente sensuale, quello di Charles Workman (Boris Grigorijevič), un versatile tenore americano che in trent’anni di carriera passa agevolmente da Mozart a Wagner. Un po’ brunito quello di Julian Hubbard (Tichon Kabanov) reduce dal recente successo romano come Cassius nel Julius Caesar inaugurale e soprattutto del Parsifal palermitano del 2020. Il basso Stephen Richardson che aveva cantato a Roma in Billy Budd nel 2018, è il corrotto Dikoj. Il mezzo soprano Susan Bickley è la trucida Marfa Kabanová. Sam Furness e Carolyn Sproule sono i due freschi giovani amanti Kudrjaš e Varvara, un raggio di luce nel clima ossessivo e nero della tragedia. Lukáš Zeman è un efficace Kuligin. In scena anche le giovani stelle diplomate del progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma: Angela Schisano (Fekluša) e Sara Rocchi (Glaša).

Del successo si è detto.