“Villa Verdi” è all’asta. È la residenza di Sant’Agata (vicino a Piacenza) dove Verdi compose il Requiem in onore di Alessandro Manzoni, diretto dall’autore poi nella Chiesa milanese di San Marco la sera del 22 maggio 1874. Altre opere videro la luce a Sant’Agata, prime tra tutte Aida nel 1871, oltre a Il trovatore e La traviata nel 1853, il Simon Boccanegra e l’Aroldo nel 1857, Un ballo in maschera nel 1859, La forza del destino nel 1862, il Don Carlo nel 1867, Aida nel 1871, Otello nel 1887 e Falstaff nel 1893. È di proprietà dei discendenti di Maria Filomena Verdi, figlia di un cugino di Verdi che egli mantenne come sua figlia e che abitò la villa come i suoi discendenti dopo la morte del maestro. Non sono più in grado di mantenerla, anche se hanno aperto al pubblico pagante alcune stanze.



Nel gennaio 2023 il ministro della Cultura ha annunciato la nascita di una fondazione partecipata da Ministero, Regione e dai Comuni di Busseto e Villanova. L’iniziativa, in collaborazione con i teatri lirico-sinfonici italiani, sostiene il progetto di salvaguardia, promozione e valorizzazione di “Villa Verdi” attraverso un ciclo di 14 rappresentazioni di musiche e opere verdiane che coinvolgerà le 14 fondazioni lirico-sinfoniche dal 10 febbraio al 15 giugno 2023 e i cui incassi verranno devoluti all’acquisto in via di prelazione del sito e delle sue pertinenze.



Il ricavato della vendita dei biglietti, detratte le spese di gestione del singolo evento, verrà acquisita da parte dell’Anfols da ciascuna fondazione lirica e devoluta, insieme alle due fondazioni autonome del Teatro alla Scala e dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, al conto corrente associato al capitolo 3680/04 di entrata afferente al ministero della Cultura. A tale capitolo di spesa potranno essere devolute ulteriori risorse, tramite donazioni di singoli cittadini.

Il Teatro dell’opera di Roma è stato tra i primi con due affollatissimi concerti. Una “generale” aperta al pubblico pagante e la prima della sua stagione concertistica. Sono stato alla serata del 15 febbraio. Numerosi spettatori paganti hanno aggiunto donazioni al prezzo dei biglietti. Secondo numerosi studiosi verdiani, in primo luogo Massimo Mila, il Requiem di Verdi si differenzia nettamente dalle altre musiche per la Messa in quanto è un grande melodramma laico ed eroico di riflessione sulla morte: il ventottesimo melodramma, se lo si aggiungono alle ventisette opere appositamente concepite per il palcoscenico. Come molte personalità del Risorgimento nazionale – Manzoni, Rosmini e pochi altri sono eccezioni – Verdi era agnostico o almeno “dubbioso” in materia religiosa. Lo era diventato dopo la morte della sua prima moglie e rimase tale per il resto della sua vita. Lo testimoniano non solo la sua corrispondenza – disponibile anche in edizioni abbreviate – ma soprattutto le sue opere, soprattutto quelle degli anni più vicini al Requiem; in Don Carlo e Aida la Chiesa, sia cattolica che egiziana, e le sue gerarchie sono rappresentate come oppressive e spietate verso tutti, anche verso il potere politico. Un recente saggio di Mauro Marni sulla religiosità di Verdi conclude acutamente; Sempre più coinvolto e partecipe nella causa risorgimentale, Verdi aumentò parallelamente il livore per la gerarchia ecclesiastica, tanto che nel Don Carlo il Grande Inquisitore incarna i disvalori di un ecclesiastico bigotto, corrotto e incoerente.



Affermare e anzi riaffermare la laicità di un Requiem non significa sminuirne il valore e il significato. Si tratta di un grande capolavoro la cui parte centrale – il Dies Irae – evoca la violenza e la vastità del suono di una vita intensamente vissuta e la cui conclusione – la dolce Lacrimosa e la struggente Libera Me – è una meditazione sulla fragilità umana di fronte al cosmo. La grandezza, tanto più tragica e più immanente, del Requiem, appare nelle sue dimensioni se confrontata con i quattro pezzi sacri di Verdi, così eleganti nei loro equilibri da sembrare quasi artificiali.

Cosa significa dare una lettura musicale cattolica a una composizione che è stata considerata un grande melodramma profano, anche se scritta su un testo religioso in latino? Questo si avverte, in primo luogo, dall’introduzione iniziale e dal finale. L’ingresso del coro è in pianissimo, segno del raccoglimento essenziale per comprendere l’opera. Nel finale, dopo la Libera me, c’è Domine da morte aeternam – una ricerca della pace eterna.

Il Requiem diretto da Michele Mariotti differisce da quasi tutte le rappresentazioni che ho ascoltato in precedenza, anche quelle nel Duomo di Parma o nella Basilica di Santa Maria in Trastevere e in altre chiese dove doveva essere eseguito durante la celebrazione ecclesiastica. Prima di iniziare lo spettacolo, Mariotti ha chiesto al pubblico di rendere omaggio al recentemente scomparso Gianluigi Gelmetti (che era stato direttore musicale del Teatro dell’Opera di Roma per dieci anni) e alle vittime del terremoto in Turchia e Siria. Mariotti ha iniziato in pianissimo il Requiem aeternum dona eis fino all’esplosione dei solisti, del coro e dell’orchestra nel Kyrie. Dirige a braccia quasi chiuse, con le mani e le dita e cantando a voce molto bassa. Senza dubbio, c’è un forte feeling tra Mariotti e l’eccellente orchestra.

Il coro, ben preparato da Ciro Visco, ha fatto meraviglie. Tra i solisti, c’è stato un cambiamento improvviso perché il soprano programmato, Eleonara Buratto, ha avuto l’influenza – è la “stagione influenzale” a Roma. È stata sostituita dalla giovane russa Elena Stikhina che è già in carriera internazionale; ha fatto molto bene, in particolare nel Libera Me. Il tenore era il rumeno Ştefan Pop, un cantante frequente al Teatro dell’Opera di Roma. Il basso era il georgiano Giorgi Manoshvili, che ha cantato nella recente Aida a Roma.

Ci sono stati circa quindici minuti di applausi e riconoscimenti, e anche una richiesta di bis… di un lavoro di un’ora e quaranta minuti.

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