Il fascino principale dell’opera italiana ottocentesca è dovuto essenzialmente a una mescolanza di brutalità e di passione. E Nabucco di Giuseppe Verdi ne è un esempio efficace, cominciando dal libretto di Temistocle Solera, la vita del quale (1815-1878) attraversa dinamicamente tutto il Risorgimento italiano, in cui si sente vibrare lo spirito dell’autore. Solera, figlio di un avvocato carbonaro imprigionato allo Spielberg, fu poeta, librettista, narratore, compositore musicale, impresario teatrale, direttore d’orchestra, funzionario diplomatico in Spagna e in Italia, organizzatore di forze di polizia dalla Basilicata all’Egitto, mercante d’arte e antiquario a Parigi (ci si chiede: è possibile che non si sia ancora scritto un romanzo su di lui?).
Verdi si è impadronito con forza dello spirito del libretto (in cui Solera miscela energicamente alcuni testi drammatici francesi) e questo si sente fin dall’ouverture; dove la vena di dolcezza del “Va, pensiero” emerge, è vero, ma brevemente: quello che predomina è il suono bronzeo degli avversi poteri in marcia. Il “Va, pensiero”, la cui fama ha offuscato il resto dell’opera, è un’estrapolazione che può risultare ingannevole. O meglio: il pubblico giustamente percepisce che quello è lo scoglio di pace cui aggrapparsi e sostare per prender fiato: ma intorno, non si può dimenticarlo, si stende il mare tempestoso di quei quattro atti.
L’opera si accentra nella personalità del re assiro Nabucodonosor. La violenza della sua conquista di Gerusalemme prosegue nella violenza uguale e contraria del fulmine che lo abbatte e lo rende temporaneamente folle. Ma quell’atterramento è anche il preludio del suo recupero della ragione, e poi della conversione al giudaismo, attraverso la quale Nabucodonosor è messo faccia a faccia con la virtù dell’umiltà e con il dolore familiare. E sarà pronto ad accogliere la rivincita ebraica sull’esercito assiro. Il Nabucco, in effetti, rivela la sua forza brutale ancor prima che si oda una nota o si ascolti una parola: la mostra cioè fin dal titolo, che taglia corto con una confidenzialità aggressiva alla solennità di quel lungo nome, Nabucodonosor (è come se la mano degli autori gli togliesse di colpo la corona regale e gli sbattesse in testa il berretto di un diminutivo: Nabucco).
Il pensiero però continua a tornare, non ai passionali ed eroici protagonisti, ma a due personaggi secondari che tuttavia hanno la chiave per dissigillare tutta la concezione dell’opera. Ecco il paradosso e la gran virtù del melodramma: da un lato, la musica della passione e violenza degli istinti; dall’altro, dialoghi che sviluppano complesse strategie di riflessione. Due terribili vegliardi si fronteggiano con la profondità minacciosa delle loro voci di basso: Zaccaria Gran Pontefice degli Ebrei e l’anonimo Gran Sacerdote di Belo (cioè Bel o Ba’al, la maggiore divinità del mondo religioso assiro-babilonese). In sostanza l’opera drammatizza il duello fra monoteismo e politeismo. Quel poderoso nesso estetico (che poi Wagner avrebbe teorizzato) di musica, parola, scenografia, coreografia, all’interno per di più di uno straordinario monumento romano, finisce col farci sentire quello che c’è di spirituale nel politeismo, la spiritualità per cui anche la Grecia è almeno altrettanto orientale che occidentale e che trascende la sua caricatura “pagana”. E qui non è in gioco qualche olimpo decorativo, ma l’esperienza interiore.
Paradosso (ma il paradosso è l’elemento centrale di ogni religione): proprio chi ha dentro di sé uno spirito monoteistico è particolarmente preparato a sentire ogni tanto, in balenii anche intensi, ciò che di serio e profondo hanno da dirci gli dei del politeismo. Non si parla beninteso di rituali neopagani e di cultismi vari, ma di momenti in cui l’individuo coerentemente (e anche ateisticamente) monoteistico riflette sugli dei di qualunque religione, con un’attenzione rispettosa che va al di là dell’estetica e dello storicismo filologico.
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