Ogni testo cinematografico cade in una di queste tre categorie: film (raro), movie (non troppo frequente), flick (la maggior parte dei casi). Come distinguerli? Il film ha un’anima, ovvero (se questo termine appare troppo teologico) un cuore; il movie (diciamo: “la pellicola” oppure: “il filmone”) non possiede completamente l’anima anche se la desidera, e in effetti la fa venir fuori, ma a sprazzi, perché è troppo distratto dal contemplare se stesso; il flick (“il filmetto”) da parte sua, l’anima non l’ha e non la desidera, mirando solo alla distrazione come “puro” divertimento (ma questa coerenza è al tempo stesso un pericolo: troppo ossessionato dal voler divertire, il filmetto fa spesso cilecca in questo senso).



Venendo al punto: dove si colloca, in questa classificazione semplice semplice e poco “scientifica”, il testo cinematografico Oppenheimer del regista anglo-americano Christopher Nolan, che sta trionfando nella critica e negli incassi? Be’, il suo successo non è immeritato, e lo spettacolo è bello: ritmo coinvolgente, dialoghi vivaci, attori brillanti, grandi sfondi che ben simboleggiano gli estremi geografici e culturali degli Usa, dal Nordest al Sudovest passando per Washington D.C., col sicuro effetto dei “palazzi del potere”. E la scena dell’esplosione nucleare è eccellente.



Allora, perché Oppenheimer resta confinato alla nicchia dignitosa del movie (la pellicola, il filmone) che sul momento affascina ma che poi non sarà troppo difficile dimenticare? Prima di tutto è un po’ troppo esplicito nella sua auto-importanza, che si nota già nella durata di circa tre ore, come in quei libroni di biografie romanzate o di romanzi gialli che costruiscono la loro immagine letteraria impacchettando carta. E non si vuole con questo dir male della biografia – un mattoncino di circa 600 pagine – da cui è tratta la pellicola, perché non è giusto criticare un libro che non si è letto.



In secondo luogo, Oppenheimer è – come la maggior parte dei filmoni – troppo indaffarato (busy, per dirla all’inglese): per metà appartiene al genere competizione sportiva (realizzazione di una difficile impresa, qualunque sia la sua natura), e per metà all’intrigo politico-legale (con le classiche scene processuali, dove non si può mai sbagliare). Ma il problema di questa pellicola è più profondo, perché di carattere etico; e, come tutti i veri problemi etici, per comprenderlo bisogna fare attenzione ai suoi sintomi estetici. Come la scena di nudo.

Dove il problema non è, per carità, l’incontro di due corpi elegantemente (e parzialmente) spogliati: questo è un passaggio quasi obbligato, nel rituale di un movie. No: il guasto sta altrove, e precisamente nel libro che la ragazza, proprio nel corso dell’azione erotica, sceglie di squadernare sul seno scoperto perché il suo partner glielo legga (e Robert prontissimo traduce a vista alcuni dei versi dal sanscrito). Ora: il gesto in sé è un po’ ridicolo (idea hollywoodiana di come vivacizzare l’intelligenza); ma il fremito lievemente osceno, dunque il problema estetico che diventa etico, sta nella natura di quel libro, che è la Bhagavad Gita, cioè il singolo testo sacro forse più importante per l’induismo (pare che nelle versioni del film proiettate in India e in Pakistan la scena del nudo sia stata “editata”; ed è lecito pensare che forse la reazione non fosse moralistica, ma propriamente religiosa: due atteggiamenti ben distinti, anche se si tende a confonderli).

Questo comunque è un problema dell’invenzione registica. Ma l’altro brividino è certamente attribuibile a Robert Oppenheimer: la sua dissacrante (o consacrante; qual è peggio?) idea di usare uno dei capolavori della poesia spirituale inglese, cioè il testo di John Donne del 1633 che comincia “Fai breccia nel mio cuore, o Dio in tre persone”, per battezzare (diciamo così) il terrificante progetto della bomba atomica. E l’inventore ci tiene, a questa idea: perché identifica la poesia, e il piano di distruzione, con una parola forte come “Trinità” (le poesie dell’epoca, com’è noto, non avevano titolo).

Lo spettatore non-lettore del libro ignora il ragionamento dietro questa scelta (e sarà interessante scoprirlo). Ma ciò che qui conta sono gli effetti cinematografici, e l’effetto è obiettivamente terribile. Tanto è vero che il verso citato (che è mormorato frettolosamente dall’attore protagonista) non è doppiato, così che lo spettatore italiano (e, se è per questo, anche lo spettatore americano medio) non ha idea di come funzioni, questa deformazione di un mondo spirituale.

Resta il fatto che quell’etichetta, “Trinità”, appiccicata su un massacro genera una sorta di vergogna, e persiste nella mente degli spettatori (i quali sono più sensibili di quello che spesso pensino i registi). Un disagio etico-estetico percorre dunque questo filmone che scherza col fuoco (come il Prometeo del titolo della biografia, che definisce il suo eroe come Il Prometeo americano, e allora lo spettatore-che-non-ha-letto si chiede: “Ma come? Prometeo ruba il fuoco a Zeus per aiutare l’umanità; che c’entra questo con un fuoco che brucia vive le persone?”).

Ma forse è proprio questo disagio che rivela quel tanto di anima che c’è nella pellicola: è l’effetto “battuta impertinente” cui a volte non si resiste, per esprimere una qualche reazione di fronte a uno spettacolo che altrimenti lascerebbe ammutoliti. E allora il vecchio motto “Scherza coi fanti e lascia stare i santi” sembra rovesciato in “Scherza coi santi e lascia stare i fanti” (dove i “fanti” sono i bombardieri portatori di sterminio a Hiroshima e Nagasaki, i nomi che resteranno per sempre).

Si potrebbe spiegare così, la lacuna già notata in recensioni scritte e orali, cioè l’assenza dei giapponesi in tutta questa pellicola: è qualcosa come una forma di pudore.

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