Tristan und Isolde ha inaugurato la stagione lirica e di balletto a Bologna il 24 gennaio; ho assistito alla replica del 31 gennaio in un Teatro Comunale pienissimo, nonostante la lunga durata dello spettacolo (cinque ore). Bologna si vanta di essere una città wagneriana, dato che ha ospitato la prima italiana di Lohengrin e di Parsifal. In questa e nelle prossime quattro stagioni metterà in scena ogni anno un’opera di Richard Wagner. Un programma coraggioso dato che la messa in scena di opere di Wagner richiede un forte impegno produttivo. Si tratterà probabilmente di coproduzioni: questo Tristan und Isolde è frutto di joint venture con il Teatro Reale La Monnaie. Il Parsifal della prossima stagione è quello visto ed ascoltato di recente a Palermo e recensito su questa testata. In tempi relativamente recenti ho visto ed ascoltato due produzioni molto differenti di Tristan und Isolde al Teatro Comunale di Bologna: nel 1983 un allestimento molto apprezzato di Yuri Ljubinov (con Zoltan Pesko sul podio) in cui la vicenda veniva ambientata nel 1850 in casa Wesendonk (l’industriale tessile svizzero della cui moglie Wagner si innamorò) e nel 1996 un’edizione importata da Amburgo dove la regia di Ruth Berghaus (Christian Thielemann era sul podio) portava la vicenda su un’astronave ed aveva una forte connotazione politica – questa edizione venne sommersa da fischi del pubblico.
Pur se chiamata da Wagner “azione in tre atti”, l’azione è tutta interiore (ed in lunghi racconti) più che sulla scena. Ricordiamo in breve la vicenda. La principessa irlandese Isolde condotta dal giovane Tristano in sposa alla zio Marco (Re di Cornovaglia e Bretagna) vuole avvelenarlo in quanto il giovane (a cui ha salvato la vita) le ha ucciso il fidanzato, ma la sua ancella Brangania sostituisce il filtro della morte con quello dell’amore. Ne conseguono adulterio e tragedia; il desiderio degli amanti di annullarsi l’uno nell’altra viene interrotto dall’essere scoperti e da ferite mortali inferte in duello al giovane, pur se Re Marco ha compreso e tollerato. Sotto il profilo musicale Tristan ha cambiato la storia del modo di comporre ed iniziato quella che sarebbe diventata la grande musica contemporanea. Senza la carica innovativa, il cromatismo e la dissoluzione della scrittura tradizionale – caratteristiche di Tristan – non ci sarebbe la musica contemporanea, da Debussy (il cui Pelléas et Mélisande venne erroneamente presentato come “anti-Tristano”) alla dodecafonia di Zemlinski, Schoenberg, Malipiero e Dallapiccola. Con circa mezzo secolo d’anticipo, Tristan apre quella che sarebbe stata una delle scuole più importanti del Novecento (“la seconda scuola di Vienna”, per distinguerla dalla “prima” dei tempi di Haydn e Mozart), nonostante Wagner avesse studiato composizione per solo sei mesi e non sapesse suonare decentemente nessuno strumento (strimpellava il piano molto male). La scrittura cromatica si giustappone quasi a quella diatonica di Die Meistersinger, composto più o meno nello stesso periodo, ed accentua la trasparenza di un lavoro la cui Aktion si svolge in gran misura di notte e nell’animo dei protagonisti.
Tristan und Isolde si presta a molteplici letture: da filosofiche (Sinopoli ne esaltava il lato schopenhauriano) a mitologiche (lo mettevano in rilievo Karajan e Fürtwangler), a erotico-sentimentali (Solti, Böhm, Chung), a decadentiste (Metha, Boulez, Ferro). Non basta un saggio unicamente per sfiorare i misteri del confronto tra Isolde wilde, minnige Maid (“selvaggiamente amante”) ed il casto Tristan. Mai prima di Tristan und Isolde (e raramente dopo) il teatro in musica è penetrato così a fondo nell’eros – ed in un eros dove c’è passione infinita ma non rapporto sessuale. C’era una determinante personale ed artistica specifica. Wagner aveva interrotto la partitura del Ring dopo la seconda scena del terzo atto di Siegfried. Non solamente temeva che il progetto non si sarebbe mai realizzato ma non riusciva a esprimere la carica erotica dei 45 minuti di amplesso e di orgasmo gioioso con cui si chiude Siegfried. Aveva bisogno di elevarsi alla gioia infinita di Die Meistersinger e di sceverare le profondità dell’eros di Tristan. Tuttavia, tra i due innamorati non c’è alcun rapporto sessuale (a Wagner non ne mancava l’esperienza di metterli in musica, visti vari momenti del Ring). Isolde è stata la donna di Morold ed è la sposa di Re Marke; Tristan non ha mai avuto una donna (per quel che ne sappiamo); nella lunga notte del secondo atto – la prima ed ultima volta che si vedono (quasi) da soli dopo l’improvviso innamoramento – invocano l’unione tra eros e thanatos ma, fisicamente, si sfiorano appena. Concettualizzano l’amore, anzi la lussuria sublime e completa (höchste Lust) considerata possibile unicamente nell’aldilà.
L’eros e la droga sono il punto centrale dello spettacolo. La lettura registica di Ralf Pleger mette l’accento sul fatto che la pozione d’amore che i due protagonisti consumano alla fine del primo atto contiene anche oppiacei; all’epoca molti musicisti si drogavano (pensiamo, ad esempio, a Berlioz), anche se sembra che Wagner consumasse, raramente, solo stupefacenti leggeri. Partendo da questo assunto, dopo avere bevuto la pozione Tristan und Isolde vedono se stessi e gli altri in modo differente. L’Aktion è tutta interiore e dilatata. Quindi, lo spettacolo è eminentemente stilizzato. Le scene di Alexander Polzin ed i costumi di Wojciech Dziedzic ci portano in mondo astratto. Nel primo, ci sono una serie di stalattiti che separano i due protagonisti. Nel secondo, l’elemento scenico è una grande scultura che assomiglia ad un albero e ricorda il Laocoonte neoclassico dai musei vaticani; da alcuni dei suoi rami sbucano mimi in posizioni erotiche durante il lungo duetto d’amore. Il terzo, la scena è un universo stellato. Recitazione molto misurata e calligrafica (quasi alla Bob Wilson). Questa impostazione (e la sua logica) sono piaciute al pubblico ed al vostro chroniqueur.
Non secondario il ruolo della parte musicale. Alla guida dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna, c’era Juraj Valčuha che sin dall’introduzione ha esaltato il cromatismo della partitura, giustapponendolo, ad esempio, alla scrittura diatonica del canto del giovane marinaio con cui inizia il primo atto. Una concertazione sontuosa con grande attenzione alle voci tutte di altissimo livelli. I due amanti erano Stefan Vinke e Ann Petersen, due grandissimi artisti, esperti nei loro rispettivi ruoli. Ottimi la Brangania di Ekaterina Gubanova ed il Re Marco di Albert Dohmen, per non parlare del Kurwenal di Martin Gantner e di Tommaso Caramia e a Klodjan Kaçani in vari ruoli minori.