Ieri Mario Draghi ha presentato alla plenaria del Parlamento europeo il suo Rapporto sulla competitività dell’Unione Europea. Ursula von der Leyen, presentando la nuova Commissione, ha dichiarato che tutta la Commissione seguirà “le raccomandazioni del rapporto Draghi”. Nel su Rapporto Draghi mette l’UE di fronte ai mutamenti geopolitici degli ultimi anni che rischiano di comprometterne la competitività. La risposta, secondo l’ex presidente della Bce, è una maggiore integrazione e un piano di investimenti senza precedenti; la cifra è un multiplo di quella del Piano Marshall.
Emettere debito europeo, soprattutto per quegli importi, per investimenti europei presuppone un salto di qualità dell’Unione; non esiste un debito “gratis”, e anche ammettendo il completo supporto della Bce questi soldi impattano sui prezzi di tutti e spostano gli equilibri dei sistemi industriali dei Paesi membri. Oggi dentro l’UE convivono Stati con bilanci, sistemi industriali ed energetici e rapporti commerciali molto diversi; caricare la Commissione del compito di salvare l’economia europea emettendo debito significa togliere sovranità reale agli Stati e spostarla a Bruxelles.
Il leader della CDU, Friedrich Merz, una settimana fa ha dichiarato che “avrebbe fatto tutto il possibile per impedire all’Europa di intraprendere la strada di nuovo debito”. Nessun Paese in Europa ha tanto spazio fiscale quanto la Germania che è in crisi strutturale. Non c’è posto per i debiti di tutti perché i risparmi sono limitati, perché è meglio contenere fiammate sui prezzi e perché, nel nuovo scenario di deglobalizzazione, oltre ai prezzi anche i tassi sono più alti. Il piano di investimento di Draghi si regge, anche agli occhi degli investitori, sulle famiglie europee e sui loro risparmi direttamente o indirettamente. Non c’è un piano economico e di investimenti separato dalla spesa sociale; i soldi necessari per reinventare un sistema industriale ed energetico competono con quelli per la sanità o l’istruzione sia a livello di bilancio pubblico che famigliare. Dare seguito al piano Draghi significa perdere autonomia nelle decisioni di spesa e alcuni Paesi hanno più da perdere di altri; ogni Paese membro ha specificità e quindi il timore che il piano comune lasci indietro questo o quel settore nazionale è lecito.
La settimana scorsa il premier spagnolo ha dichiarato di non essere particolarmente favorevole a dazi europei contro l’importazione di auto elettriche cinesi. Il timore di Sanchez è che le ritorsioni cinesi possano colpire le esportazioni spagnole verso Pechino. Il settore automobilistico non ha lo stesso peso in tutti i Paesi membri. Non a tutti servono gli stessi soldi negli stessi settori.
Il piano Draghi mette sotto pressione la costruzione europea e diventa inevitabile chiedersi se sia, già adesso e non domani, abbastanza forte politicamente per reggerla.
Ieri Draghi ha dichiarato che opporsi al debito comune europeo significa opporsi agli obietti dell’Unione. Questa equivalenza presuppone che gli obiettivi dei singoli Stati coincidano con quelli dell’UE, ma questo non è vero già oggi. I francesi hanno il nucleare e “sono a posto”, ma i tedeschi non ce l’hanno e fino a ieri, nonostante investimenti colossali in rinnovabili, si appoggiavano al gas russo; gli spagnoli non hanno il problema dell’energia elettrica, ma l’Italia sì. Il piano Draghi presuppone che non ci possa essere un futuro prospero per gli Stati membri se non all’interno dell’Unione, ma è lecito dubitarne. I prezzi dell’elettricità spagnoli sono una carta che si gioca molto meglio da fuori che da dentro se il futuro è un mercato dell’energia elettrico unico e disfunzionale, perché bisogna aspettare i tempi della transizione o pagare il gas che serve agli italiani. Qualsiasi fosse il costo dell’Unione prima del piano Draghi, dopo di esso si moltiplica e si moltiplicano i rischi.
La questione non è economica, ma tutta politica, perché la storia degli ultimi tre anni è il successo di tante medie potenze che sono state in grado di ritagliarsi uno spazio in uno scenario in evoluzione. Una su tutte, appena fuori dall’Ue, è la Turchia, che da dentro la NATO apre centrali nucleari a tecnologia russa e si è ritagliata un ruolo di primo piano in Libia.
La questione che si apre è lo sconto dentro l’Europa e l’opposizione a una maggiore integrazione che è costosa e comporta rischi. Una Germania a pezzi avrebbe sicuramente meno forza per opporsi. Se questa però è una condizione necessaria perché il piano passi, bisognerebbe chiedersi cosa si possa produrre politicamente sia in Germania che, a quel punto, in altri Paesi.
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