Per quasi due giorni gli investitori si sono chiesti come fosse possibile che Unicredit avesse potuto lanciare una Ops su Banco Bpm quando tutto lasciava pensare che il Governo italiano avesse in realtà in mente un’aggregazione dell’ex popolare di Milano con Mps. La creazione di un terzo polo intorno alla banca senese e a Banco Bpm era la conseguenza naturale della decisione con cui il Governo affidava al gruppo lombardo la cessione del 15% di Monte Paschi; dopo la cessione di quella quota, Banco Bpm diventava il primo socio bancario di Mps con una quota, diretta e indiretta, del 9%. La premessa è che dalla Spagna alla Polonia e dalla Gran Bretagna alla Grecia i sistemi bancari non prendono forma “nonostante” i Governi. La prova provata di questa evidenza è la resistenza messa in atto dal “sistema Paese” tedesco contro un’aggregazione di Unicredit e Commerzbank. Il Paese guidato da Olaf Scholz, tutto l’opposto di un populista, ha costretto Unicredit a definire la partecipazione nella banca tedesca come un investimento finanziario e niente di più.



La risposta alle perplessità degli investitori sulla mossa di Orcel è arrivata ieri con le dichiarazioni di Tajani. Per il leader di Forza Italia la politica non deve immischiarsi e, al limite, sarà la Bce a dire se le regole vengono rispettate. Per gli investitori queste non sono dichiarazioni neutrali, ma un avvallo dell’iniziativa di Unicredit. Emerge così un nuovo scenario che risolve l’enigma dell’offerta di lunedì. Non c’è una posizione del Governo; ci sono diverse posizioni all’interno del Governo che quindi ha una capacità di indirizzo limitata o nulla. Anche il silenzio di Giorgia Meloni non è neutrale; è un silenzio che implicitamente conferma la posizione di Tajani, e cioè che non ci sia niente da obiettare a un’operazione di Unicredit. Sui mercati alcuni eccepiscono, non senza ragioni, che consegnare Banco Bpm a Unicredit condurrebbe Mps verso Bper e quindi all’emersione di un terzo polo a guida Pd. Questa però non sembra un’obiezione per un Governo “di destra”.



Che il sistema-Paese “lasci fare al mercato” in uno scenario di crisi profonda dell’industria italiana, minacciata dal caro bollette e dai dazi di Trump, è singolare. Il risparmio non è mai stato una risorsa abbondante, ma oggi, in un mondo di tassi e inflazione alta, lo è ancora di meno. Qualsiasi Governo dovrebbe volere un sistema bancario in grado di sintonizzarsi con il suo mondo imprenditoriale. Non è chiaro però che spazio ci sia per i territori dentro un gruppo proiettato verso una grande operazione transfrontaliera in cui, per forza di cose, si dovrà venire a patti con l’altro Governo dell’altro Paese il quale, certamente, porrà condizioni a tutela del proprio sistema. È inevitabile pensare alla traiettoria di Fiat. Del gruppo globale a guida italiana che i giornali celebravano dopo l’acquisizione di Chrysler non è rimasto nulla. O meglio, è rimasto un gruppo globale a guida francese in cui in Italia si chiudono gli impianti. Unicredit, giustamente, fa la sua partita sullo scacchiere europeo con un azionariato globale. L’Italia dovrebbe fare la sua.



Se l’alternativa a una fusione tra Mps e Bpm è un secondo polo oggi “italiano” a guida Unicredit e domani chissà, allora non si comprende quale sia la preclusione a un’offerta di Credit Agricole su Banco Bpm, di cui la banca francese è già il primo azionista. Se le operazioni nel sistema bancario sono “decise dal mercato”, perché Unicredit sì e Credit Agricole no? Perché la seconda è francese? Se “siamo in Europa” e “decide la Bce” allora non ci sono preclusioni di sorta né sulla piccola Banco Bpm, né su Mediobanca, né su Generali. Vince chi offre di più agli azionisti e agli “stakeholders”, risparmiatori, dipendenti e imprese inclusi.

Lo scenario che si va delineando è un film visto e rivisto in Italia: il mercato e l’Europa a senso unico, dove l’unica direzione è quella in entrata e mai quella in uscita, tra litigi e proclami sui massimi sistemi mentre l’America di Trump blocca acquisizioni industriali, perfino sulle acciaierie, e annuncia dazi anche contro il Canada e con il Governo tedesco a guida Scholz che conserva gelosamente “l’indipendenza” di Commerzbank. Il “mercato”, per finire, anche in questo caso, ha nomi e cognomi.

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