Siamo all’aut aut. O Biden o Netanyahu. La minaccia del presidente americano di non fornire armi offensive a Israele in caso di operazione militare a Rafah ha una spiegazione precisa: Biden non può assecondare i piani del primo ministro israeliano perché rischia seriamente di non essere rieletto, e viceversa il premier di Israele non può rinunciare all’azione a Rafah senza vedere cadere il suo governo. Uno scontro da mors tua vita mea, spiega Renzo Guolo, ordinario di sociologia della religione all’Università di Padova, esperto di islam e fondamentalismi, che può essere sanato spingendo per un esecutivo a guida Gantz che sostituisca l’attuale. Gli USA non possono abbandonare Israele: ne hanno bisogno in funzione anti-iraniana e anche dopo un’eventuale azione a Rafah non arriveranno a rompere i rapporti. Se si riuscisse a tirare avanti fino a novembre, poi, una vittoria di Biden potrebbe rimettere sulla stessa linea le amministrazioni dei due Paesi.
Qual è la portata della sospensione di fornitura delle armi a Israele da parte degli USA in caso di attacco a Rafah? Può portare alla rottura dei rapporti tra americani e israeliani?
È sicuramente un passaggio importante dell’amministrazione Biden. Finora gli USA non avevano mai fatto mancare l’appoggio a Israele in termini di garanzie militari. L’annuncio di Biden è uno spartiacque, sancisce sì tutte le divergenze che ci sono state sulla guerra a Gaza, non tanto sulla necessità di combattere Hamas, quanto sulle modalità con cui viene perseguito questo obiettivo. Biden ha invitato a non fare come gli USA in Iraq e in Afghanistan, dove sono stati occupati dei territori, ma di procedere con operazioni mirate, con tutte le difficoltà che può comportare una guerra nel sottosuolo di Gaza. L’alleanza, tuttavia, non si può toccare perché gli Stati Uniti hanno interesse che Israele contenga l’espansione dell’Iran nell’area.
Le divergenze però sono profonde e vanno al di là di Rafah. Qual è il vero nodo da sciogliere?
Dopo il 7 ottobre la questione palestinese è stata rimessa sul tavolo drammaticamente da Hamas e non è più rimovibile, non si può mettere sotto il tappeto. I Paesi arabi sunniti possono firmare una nuova versione degli accordi di Abramo solo se quel tassello va a posto. Non sono molto interessati alla questione palestinese ma solo fino a quando rimane latente: se emerge in modo così eclatante la situazione cambia: e a quel punto si pongono problemi di stabilità interna anche per quei regimi. La questione va risolta, ma il governo di Israele non punta su nessuna soluzione politica, la guerra e l’occupazione sono la continuazione di uno stato di eccezione che consente a Netanyahu e la sua maggioranza di governare a oltranza.
Lo scontro Biden-Netanyahu era già evidente prima, qual è stato il salto di qualità che si è verificato in questi giorni?
L’ammissione fatta da Biden è molto importante: le bombe americane sono state utilizzate per uccidere parte della popolazione civile palestinese. Sono le stesse argomentazioni che gli rivolgono i suoi critici di sinistra, interni al partito, e che potrebbero costargli la rielezione. C’è una divaricazione USA-Israele di carattere strategico su come stabilizzare la regione, ma c’è anche un altro fattore: siamo a una sorta di mors tua vita mea, perché è in gioco la stessa rielezione di Biden.
Il governo israeliano, però, dice che ce la farà anche da solo. Può essere autosufficiente dal punto di vista militare?
La risposta di Netanyahu e della sua maggioranza a Biden è: “Faremo da soli”. Ma se non arrivano rifornimenti per Rafah ci possono essere seri problemi. Se la garanzia americana si riferisce solo alla protezione da attacchi esterni a Israele diventa tutto più problematico: sinora Israele ha avuto non solo finanziamenti e aiuti militari, ma anche coperture satellitari.
Non è indifferente, insomma, che gli Stati Uniti ci siano o meno.
Non lo è né dal punto di vista militare né da quello politico. Se il suo più grande alleato è in disaccordo sull’operazione a Rafah, Israele si troverebbe isolato. Se poi arrivasse una incriminazione da parte della Corte penale internazionale sarebbe difficile per Netanyahu resistere. Il problema vero è che non Israele, ma questa maggioranza è vincolata alla sua stessa composizione: i ministri della destra nazional religiosa se Netanyahu non entrasse a Rafah uscirebbero dal governo. La vicenda è diventata una questione di sopravvivenza personale per i due leader politici: Biden e Netanyahu.
È impossibile trovare un punto di equilibrio per metterli d’accordo?
Se così rimangono le cose continueranno a scontrarsi. Israele ha sempre contato sul fatto che gli USA non sarebbero mai giunti a questo punto. Invece ci siamo vicini.
Secondo Times of Israel il rapporto di Blinken al Congresso sull’uso delle armi da parte israeliana muoverà critiche al comportamento di Israele, concludendo che non sono state violate le leggi internazionali. Un primo passo verso la distensione dei rapporti?
Quello tra USA e Israele è un vincolo strategico, il problema vero è se Biden comprende quello che gli dicono anche molti esponenti dell’apparato del partito democratico, a partire dall’ex presidente della Camera Nancy Pelosi: “Se non rompi con Netanyahu in maniera palese perdi le elezioni”. Ed è difficile che Biden accetti di uscire di scena dopo che ha puntato tutto su questa rielezione. Per evitare la sconfitta potrebbero cercare di far cadere il governo puntando su Gantz: ha già ricevuto una sorta di investitura quando è stato ricevuto negli USA, si tratta di vedere fino a che punto si sono sviluppati i rapporti con lui.
Gantz, tra l’altro, è anche il leader più accreditato nei sondaggi sulla politica israeliana. Anche per questo la scelta potrebbe ricadere su di lui?
Il governo Netanyahu ha comunque i numeri in parlamento senza Ganz, ma se ci fossero altre decisioni americane sulle armi, se i giudici dell’Aja incriminassero il primo ministro e se Gantz uscisse dal governo, la posizione del primo ministro attuale sarebbe difficilmente sostenibile.
Per gli elementi di cui siamo a conoscenza cosa dobbiamo aspettarci per Rafah?
Per quello che sappiamo, gli israeliani stanno preparando l’attacco attraverso uno sfollamento progressivo della città per quadranti. D’altra parte ci sono già stati bombardamenti mirati. Non avrà il carattere dell’offensiva a tutto tondo, ma pezzo per pezzo l’operazione ci sarà. Poi bisognerà vedere cosa farà Hamas: questa è l’ultima battaglia, non potranno spostarsi all’infinito per sfuggire agli israeliani, ne va delle stesse sorti della leadership di Sinwar. Non per niente una delle reazioni non ufficiali alle parole di Biden è stata: “A questo punto qualsiasi ipotesi di tregua sugli ostaggi cade”.
Non sembra esserci grande fermento ormai sulla trattativa. Non se ne farà niente?
Tutti hanno cercato il rilancio per lasciare con il cerino in mano la controparte, ma né l’ala militare di Hamas né Israele pensa che questo accordo sia perseguibile. Tel Aviv non vuole farsi imporre una tregua permanente, Hamas sa che, se liberasse gli ostaggi, non avrebbe margine di manovra sulle trattative.
Ma se l’IDF entra a Rafah, la frattura con gli USA diventerebbe insanabile?
La rottura sarebbe palese. Le parole di Biden suonano come un ultimo avviso. Dopo di che, se si arriverà all’attacco a Rafah, gli americani dovranno temperare le esigenze di realpolitik, tenendo in piedi l’alleanza, ma rendendo noto a tutti che non c’è più fiducia in Netanyahu. Israele, d’altra parte, non può certo chiedere aiuto a Russia o Cina, cercherà di far passare la buriana e di arrivare a novembre per vedere se vince Trump.
(Paolo Rossetti)
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