Tenendo a mente le considerazioni esposte nella prima parte, questo articolo tenta di fare un po’ di chiarezza. Ricordando il noto aforisma attribuito ad Antonio Gramsci – “Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri” – cerchiamo di guardare oltre i titoli di stampa per capire perché “il vecchio mondo sta morendo” e quali sono i germogli, se ci sono, “del nuovo mondo”.



“Oggi è necessario ricalibrare l’ordine mondiale e, per funzionare correttamente ed equamente, dovrebbe essere una realtà ampiamente condivisa basata sui valori, che rifletta la nostra nuova realtà, più caleidoscopica”.

A Samarcanda si è svolto il vertice dell’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (Sco), fondata nel 2001 da 6 paesi e che oggi ne accoglie 26 tra membri, in via di adesione, osservatori e partner del dialogo. Pur sottolineando che il gruppo riunisce oggi rappresentanti della maggioranza della popolazione mondiale (44% della popolazione) e il 24% del Pil mondiale, mentre l’insieme delle organizzazioni occidentali rappresenta circa il 12% della popolazione e quasi il 70% del Pil mondiale, la rilevanza dell’organizzazione non è testimoniata dalla sua ampia e diversificata partecipazione, ma dalla sua modalità di funzionamento – governance, cioè il metodo che permette la costruzione della coesione nell’identificazione degli obiettivi e dei processi decisionali – che è ispirata al cosiddetto “Spirito di Shanghai”: fiducia reciproca, mutuo vantaggio, uguaglianza, consultazione, rispetto per le diverse civiltà e perseguimento di uno sviluppo comune.



Ciò costituisce un’attrattiva, puramente multilaterale, anche per paesi che già sono membri di altre organizzazioni adattate all’ambiente egemonico occidentale o che sono nate strutturalmente nella forma di alleanze o unioni di Stati. Non è un caso, infatti, che a Samarcanda fosse presente l’Iran in qualità di osservatore (e presto futuro membro), mentre come partner di dialogo c’erano Arabia Saudita, Qatar ed Egitto, ai quali presto si aggiungeranno Bahrain e Maldive. E la lista dei paesi interessati si allunga giornalmente. Tra i paesi che vogliono diventare membri della Sco c’è anche la Turchia, che è membro della Nato, ma che a Samarcanda ha esplicitato le sue intenzioni.



Su molti media occidentali, e anche sul Sussidiario, abbiamo letto che a Samarcanda si starebbe costituendo un’alleanza alternativa e competitiva con l’Occidente, che in sostanza si tratterebbe di una riedizione di Bandung, di una Nato asiatica, che la Cina vorrebbe assumere un ruolo egemonico addirittura mondiale, che la cooperazione tra i membri sarebbe debole e quindi insignificante, e che la riunione sarebbe fallita perché non ha risolto il conflitto tra Russia e Ucraina o la situazione dell’Afghanistan, abbandonato dagli americani in mano ai talebani. Tutte letture compiute con gli occhiali deformanti dell’esperienza e della cultura occidentale che tendono a ridicolizzare le esperienze, le culture e le identità altrui.

In questo articolo cerchiamo di capire un po’ meglio perché gli occidentali hanno difficoltà a capire quale sia il processo in atto, che da Samarcanda si è riverberata anche nell’ultima Assemblea generale dell’Onu a New York, alla quale non hanno partecipato i presidenti di Cina, India, Russia ed Etiopia.

“L’Assemblea generale si riunisce in un momento di grande pericolo”, ha detto Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. “Il nostro mondo è rovinato dalla guerra, martoriato dal caos climatico, segnato dall’odio e svergognato dalla povertà, dalla fame e dalla disuguaglianza”. D’altra parte, l’Onu e la sua Assemblea generale sono “una macchina gigantesca che raggruppa quasi 200 Stati (di cui solo 5 hanno potere di veto nel Consiglio di sicurezza, unico organo le cui decisioni sono legalmente cogenti) in meccanismi multilaterali – con discorsi generalmente senza valore e con operatività largamente inefficace – che in alcuni casi sopravvivono solo con i correttivi strategici e i fondi di grandi fondazioni private internazionali” (ad esempio, la Gates Foundation e la Rockefeller Foundation).

Dunque, cerchiamo di capire la portata della differenza tra le organizzazioni internazionali alle quali siamo abituati – quelle liberali/neoliberali – e quelle nate nel nuovo millennio in un ambiente culturale diverso.

L’ideologia e il metodo liberale/neoliberale hanno caratterizzato la nascita, la strutturazione e le modalità di funzionamento delle organizzazioni internazionali create tra il 1919 e il 1995, tutte ispirate a princìpi performativi – legali e/o contrattuali, che hanno traviato il senso del diritto pubblico internazionale ridotto ad assiomatiche procedure – ai quali aderire integrandone gerarchicamente princìpi (assiomi) e procedure. Queste organizzazioni si configurano come piattaforme dialogiche – nascondendo le “comunicazioni” implicite nelle parole utilizzate – con procedimenti vari che hanno in comune l’essere relativamente esistenziali e relativistici, quindi ideologici (“con me, o contro di me”). Perciò è solo all’interno di quella ideologia che possono avvenire adattamenti sul piano strategico (si pensi, ad esempio, alla Carta dell’Onu che nessun paese ha mai disconosciuto). Esse costituiscono un sistema d’ordine logico formale, una scienza assiomatizzata fondata sul concetto di supremazia delle procedure di derivazione aristotelica.

Proprio in forza della supremazia delle procedure, le organizzazioni fondate e strutturate attorno ai processi dialogici promettevano di “democratizzare” le relazioni internazionali superando il vecchio schema dialettico hegeliano (tesi, antitesi, sintesi), afflitto da un pregiudizio gerarchico: il potere di affermare e di contraddire. Queste organizzazioni volevano promuovere la cooperazione e la collaborazione tra gli associati. Infatti, come scriveva Edgar Morin, la dialogica è il linguaggio della solidarietà. Serve a capire, più che ad affermare; a legare, più che a dividere[5]. È il linguaggio dei legami deboli, quelli intessuti a distanza: lievi connessioni che hanno la capacità di sviluppare il capitale sociale, che sono apportatori di conoscenza e di esperienza comunitaria, che fanno crescere e migliorare la qualità della vita.

Chi scrive è un realista pragmatico e vede che proprio in virtù del metodo dialogico – metodo che implica un tipo di ascolto che si occupa delle intenzioni implicite dietro le parole effettive di chi parla – queste organizzazioni, pur riuscendo a ridurre la competizione tra i loro membri attraverso procedure di consenso e unanimità, se confrontate con situazioni conflittuali e/o emergenziali non riescono a portarle alla chiusura, lasciandole irrisolte (si pensi, ad esempio, all’estrema povertà, alle carestie, alle pandemie e alle guerre).

Per queste ragioni, l’inefficienza di queste organizzazioni favorisce l’emergere di egemoni (statuali e privati) che agiscono da regolatori di ultima istanza, dei Leviatani postmoderni che reimpongono l’ordine gerarchico tipico della modernità accompagnata dai noti corollari di iniquità, discriminazione e sottomissione. In pratica, la promessa implicita in queste organizzazioni di creare globalmente una società reticolare come strumento adeguato a instaurare relazioni paritetiche e interdipendenti – idea magnificata dall’avvento della quarta rivoluzione industriale, quella digitale e l’infosfera – si è infranta perché siamo ancora all’interno della modernità, anzi, per dirla con Baumann, “nel guado della modernità liquida”.

Questa presa di coscienza rovescia le analisi di Jean-François Lyotard, il padre del manifesto della post-modernità – “società rinnovata da capo a piedi, lontana dai lacci costrittivi della modernità e dai suoi condizionamenti solidi” – perché la modernità rinasce nella post-modernità.

A dimostrazione dei limiti dell’approccio liberale/neoliberale, sopra delineati, portiamo ad esempio un recente progetto, ambizioso e giusto, che è purtroppo fallito proprio a causa della “modernità liquida” che è il piano scivoloso nel quale viviamo. Parliamo di Covax, lanciato nel 2020 su iniziativa multilaterale di Onu e Oms, che doveva “fornire vaccini Covid-19 per tutti i paesi del mondo sulla base della solidarietà e dell’equità”. Invece, si basava sulla volontà dei paesi ricchi di condividere le loro dosi. “Sfortunatamente, non è successo … I paesi ricchi si sono comportati peggio dei peggiori incubi di chiunque altro”.

Il mondo non può contare sulla mera buona volontà e cooperazione per spingere misure di salute pubblica responsabili in futuro. “Hanno ragione a dire che il modello Covax funzionerebbe – se fossimo organizzati in modo diverso come un mondo”, ha detto Andrea Taylor, ricercatrice presso il Duke Global Health Institute. “Chiaramente non ha funzionato e non funziona nel mondo in cui viviamo”.

Invece di fare affidamento su un processo legittimo guidato dai governi per sviluppare un approvvigionamento globale di vaccini e una piattaforma di allocazione equa, la responsabilità critica di Covax è stata assunta da Gavi, una partnership sanitaria globale pubblico-privato (sempre presente alle riunioni dei miliardari di Davos). È discutibile se Gavi abbia avuto le maggiori responsabilità o le capacità di supervisione necessarie per un meccanismo che doveva servire l’intero globo. Covax ha fallito per vari motivi interconnessi, alcuni sotto il controllo di Gavi e altri no.

In un’inchiesta recente condotta da “Politico” e dal giornale tedesco “Welt” si evidenzia come un manipolo di miliardari filantropi “abbiano usato il loro peso e influenza per controllare la risposta globale al Covid-19”. Tra questi Bill Gates, scrivono nell’inchiesta, e i suoi sodali hanno “agito senza scrutinio governativo” e “hanno imposto che liberare i vaccini dalla protezione della proprietà intellettuale (brevetti) non avrebbe giovato alla fornitura di più vaccini”. Scelta politica che disgraziatamente gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno deciso di seguire (con buona pace dei “valori” sbandierati da Ursula von der Leyen, che ha avuto almeno una decina di riunioni dirette con Gates).

D’altra parte, “Gates e gli altri hanno speso nel 2020 oltre 10 miliardi di dollari in lobbying per convincere i governi e le organizzazioni multilaterali dell’Onu e l’Ue”[12]. Il corollario politico di queste scelte è stato che i vaccini sviluppati in Cina, Russia e Cuba sono stati declassati a “pozioni inutili” e la cooperazione con quei paesi si è fermata. Mentre nei paesi più poveri che non hanno potuto comprare i vaccini a prezzi di mercato la popolazione vaccinata è sotto il 20%, Bill Gates è tornato sulla scena promuovendo il suo nuovo libro “Come prevenire la prossima pandemia”[13] nel quale, ovviamente senza alcun cenno autocritico, detta le ricette che i governi dovrebbero seguire per “essere più preparati in un clima attuale di crescente polarizzazione creata dalla guerra russa in Ucraina”.

(2-continua)

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