C’è spazio per l’operetta in un festival multidisciplinare di importanza mondiale come il Festival di Salisburgo? Non so negli anni cui von Karajan faceva il bello e il cattivo tempo nella città alpina ai confini tra Austria e Baviera vi abbia mai messo in scena la partitura da lui più amata: Die lustige Witwe (La vedova allegra) di Franz Lehar (di cui esiste una registrazione meravigliosa con proprio von Karajan alla bacchetta). Lehar ha comunque un festival a lui dedicato non lontano da qui, a Bad Ischl. La domanda non è oziosa perché quest’anno, in occasione dei 200 anni dalla nascita di Jacques Offenbach, il festival ha incluso nella programmazione la sua operetta più nota Orphée aux enfers. Un omaggio coprodotto con la Deutschen Oper am Rhein e la Komischen Oper Berlin.



Ponendo la domanda non si vuol sotto-intendere che l’operetta è un genere “inferiore” alla grande lirica, alla sinfonica, alla cameristica, alla prosa, alla musica sperimentale che ogni anno tra il 20 luglio circa e il 31 agosto animano circa 200 spettacoli che portano quasi 400.000 spettatori a Salisburgo. L’operetta è un genere importante di cui sono innamorato, ma che è difficilissimo mettere in scena. In primo luogo, ci vogliono cantanti (con voci impostate per la lirica) che sappiano recitare, dialogare, ballare. Inoltre, ci vuole un’orchestra di tutto rispetto che sappia cogliere sfumature quasi aeree. Infine, occorre decidere in che lingua cantare e recitare: quella originale o quella del Paese in cui si rappresenta il lavoro.



Proprio qui a Salisburgo, nel 2016 quel diavolaccio di Cecilia Bartoli portò con grande successo West Side Story di Leonard Bernstein, ma non nella versione che di solito si vede in teatro. In quella per voci “impostate” (e che voci! José Carrera, Kiri Te Kanawa, Tatiana Troyanos, Marilyn Horne, Kurt Ollman) concepita da Bernstein per la sala di registrazione. Con cantati lirici in grado di ben recitare, un’orchestra come si deve e soprattutto in lingua originale.

Il problema della lingua non è secondario. Negli anni in Italia si sono ascoltate almeno due ottime produzioni de La vedova allegra in traduzione ritmica italiana e con bravi cantanti-attori. Si è anche vista una pessima produzione con i dialoghi in italiano e le parti cantate in un tedesco da giudicare approssimativo e poco comprensibile (pur se essenziale al lavoro). Molto meglio le tre operette viste e ascoltate al Ravenna Festival nel 2016: affidate a una compagnia di Budapest di livello e cantate e dialogate in magiaro con sovra titoli.



C’è, poi, un altro punto di rilievo: l’operetta – specialmente quella francese – ha una forte vis satirica e politica che deve essere contestualizzata nell’epoca in cui è stata concepita. Ciò vale soprattutto per due capolavori di Offenbach La belle Hélène e per l’appunto Orphée aux enfers, sferzanti satire della borghesia della Francia del Secondo Impero e della Terza Repubblica, nonché di personaggi celebri (ad esempio Paganini) che all’autore erano antipatici. Ricordo una bella edizione a La Fenice a Venezia nel 1985 in cui parte di questi problemi erano risolti con una buona traduzione italiana e bravi cantanti-attori.

A Salisburgo, si è presa un’altra strada. Per la parte musicale, ci si è affidati al bravo maestro concertatore italiano Enrique Mazzola e ai Wiener Philharmoniker. Per la regia, a uno dei grandi nomi di questi anni, Barrie Kosky, che ha reso la Komischen Oper di Berlino uno dei teatri più interessanti d’Europa. Dato che il cast è internazionale, in gran misura di lingua tedesca, si è scelto di far cantare in francese e recitare in tedesco. Inoltre, dato che non tutti gli interpreti hanno dimestichezza con il tedesco (la protagonista Kathryn Lewek è del Midwest americano) si è deciso che parlasse solo Max Hopp (nel ruolo di John Styx) mentre gli altri facevano finta di dialogare muovendo le labbra. In breve, le parti cantate erano incomprensibili. E le parti parlate erano un’esibizione della bravura di Hopp come fine dicitore, per utilizzare il lessico del tempo dell’operetta.

E la satira nei confronti della borghesia ricca e godereccia? Difficile scorgerla. Lo spettacolo era, invece, un burlesque. Con il tradizionale Can Can finale. Ballato però in gran parte da uomini en travesti. E il povero Orfeo? Non va nell’orgiastico inferno immaginato da Offenbach, ma resta nel limbo.