Come abbiamo detto negli articoli “Verso gli Oscar” scritti nelle scorse settimane, questa del 2021 sarebbe stata un’edizione storica, la prima – si spera l’unica – in cui la vera protagonista è stata la pandemia. Slittata di due mesi, la cerimonia si è svolta secondo norme sanitarie peculiari, all’interno del Dolby Theatre e della Union Station: ed è ironico che in una serata svoltasi dentro una stazione abbia vinto il film di chi non ha una casa, Nomadland, l’opera di Chloe Zhao che dopo il Leone d’oro a Venezia e una messe di altri premi ha vinto 3 Oscar, per il miglior film, la miglior regia e l’interpretazione di Frances McDormand (e personalmente, lo ritengo il miglior film di questa edizione, insieme a Wolfwalkers, candidato per l’animazione).



Altro motivo di storica curiosità è stato il cambio del regolamento relativo all’eleggibilità dei film, allargandolo anche a quelli che sarebbero dovuti uscire in sala, ma che hanno ripiegato sui servizi streaming, anche se poi quasi tutti i film sono usciti negli Usa anche in sale, magari con poche copie. Tuttavia è un segnale d’indirizzo importante. Altro dato curioso: è la prima edizione dal 2006 a non avere nessun film con più di 3 Oscar vinti, a riprova della stranezza delle nomination, della loro eccentricità e imprevedibilità, dovuta sia alla pandemia, sia al clima di rinnovamento culturale degli Stati Uniti.



Così con 2 Oscar ci sono vari film: The Father, che ha vinto due premi meritatissimi, quello per il miglior adattamento e per il miglior attore protagonista, il superbo Anthony Hopkins che ha imprevedibilmente tolto la statuetta al defunto, ma favoritissimo, Chadwick Boseman di Ma Rainey’s Black Bottom, che ha portato a casa i premi per il trucco e le acconciature (sconfitto il Pinocchio di Garrone) e per i costumi; Judas and the Black Messiah ha vinto i premi per il non protagonista, Daniel Kaluuya, e per la miglior canzone che ha battuto il brano di Laura Pausini; il grande sconfitto Mank ha vinto i premi per la fotografia e la scenografia, mentre l’outsider Sound of Metal quelli per montaggio e sonoro; Soulinfine, i premi per il miglior film animato e per la musica.



Forse per incertezza, forse per mancanza di titoli catalizzatori, l’Academy quest’anno ha ragionato come la giuria di un festival, sparpagliando il più possibile i premi e cercando di valorizzare quasi tutti i grandi nominati: Minari ha portato a casa il premio per l’attrice non protagonista Youn Yuh-jung, Una donna promettente (di cui parleremo a breve, visto che uscirà il 29 aprile nelle sale italiane) ha vinto per la sceneggiatura. Dispiace, almeno a chi scrive, la mancata vittoria di Collective, potente documentario rumeno disponibile sulla piattaforma IWonderfull, seppure il film vincitore, Il mio amico in fondo al mare, resti comunque un ottimo lavoro.

Della cerimonia in sé è difficile parlare: dopo un anno di premiazioni via Zoom, molto discutibili, quest’anno si è tornati a una presenza molto sui generis, a una location insolita e a un tipo di spettacolo ibrido a cui, evidentemente, gli autori non hanno saputo imprimere ritmo e personalità, facendo confusione con categorie, ordini di scaletta, accelerando sul finale e dando una spiacevole idea di anti-climax. Ma non si può loro neanche fare un colpa, lavorare con quel tipo di pressione è un problema per tutti e si può sbagliare. Ma non stupirebbe, anche per la natura non proprio mainstream di molti dei film premiati, se quest’anno la cerimonia degli Oscar risultasse la meno vista da molto tempo a questa parte.