MINNEAPOLIS – Notte degli Oscars… Mi è sempre piaciuto andare al cinema, anche se negli anni la cosa è diventata piuttosto rara. L’ultima visita a un “theater” qualche tempo fa in una gelida (super-gelida) serata di inverno minnesotiano, a vedere The Fabelmans. Sala stupenda, schermo gigante, audio avvolgente, poltrone spaziali di quelle che ti verrebbe da passarci sopra tutta la giornata, e quattro presenti: io, mia moglie, una nostra figlia, suo marito. Fine dell’appello. Potenza dello streaming domestico…
Ma sebbene l’industria cinematografica insista con i suoi appelli ad andare al cinema, stasera con gli Oscars siamo tutti invitati ad accomodarci sul divano di casa, magari con tanto di popcorn per vedere chi vincerà questo e quello, ma soprattutto per vedere quanto il mondo del cinema cercherà di prendersi sul serio lanciando improbabili appelli e auspicando instabili ponti verso “il mondo reale”. Mondo reale che in verità in buona misura ama questo gioco delle parti in cui la gente comune per una sera sembra poter misurare, quasi tenere in pugno questi straordinari personaggi del mondo fatato che si chiama Hollywood. Poterli misurare semplicemente vedendoli sfilare sul red carpet, tutti addobbati come vetrine sotto natale, incartati e luccicanti come caramelle “Rossana” o uova di pasqua con tanto di superfiocco. Poterli persino giudicare per le sciocchezze che dicono nello spiegare i segreti di questi abiti più o meno impresentabili che indossano.
Ma è domenica sera, si comincia la 95ma edizione degli Oscars con Jimmy Kimmel, presentatore dell’evento, che viene paracadutato sul palco del Dolby Theater a mo’ di Top Gun. Kimmel è in gamba, fa di tutto perché quel mondo lì non si prenda troppo sul serio. Ogni tanto riesce anche a far sorridere, in verità ci scappa anche qualche risata, ma soprattutto – prodigiosamente – riuscirà per tutta la serata a non infognarsi in tematiche politico-ideologiche, quelle appiccicose che danno sempre fastidio, ma che in un ambientino come quello degli Academy Awards diventano di un retorico-stucchevole da dar fastidio allo stomaco.
L’unico problema è che tolte di mezzo quelle cose li è come se non restasse niente di cui parlare. Certo, ci sono i film e una valanga di riconoscimenti per le numerosissime categorie, ma pare proprio che nessuno abbia niente da dire oltre che “grazie per questo premio”, “lo dedico alla mamma, alla nonna ed alla zia”, “senza questo cast fantastico non sarei qui”… e via dicendo, un po’ come il “sono contento di essere arrivato primo” delle interviste ai ciclisti del Giro d’Italia di sessant’anni fa. Insomma, una notte degli Oscar completamente uneventful, in cui non è successo quasi niente.
Quasi, perché un piccolo lampo c’è stato. All’inizio, quando Ke Huy Quan è salito sul palco per ricevere la statuetta come “best supporting actor”, miglior attore non protagonista. Il primo Oscar raccolto da Everything, everywhere, all at once, film – decisamente strano – che ha dominato la serata. Dicevo di Quan. Avete mai visto Indiana Jones e il tempio maleddeto? E I Goonies? Roba degli anni ’80. Se sì, probabilmente ricorderete quel simpatico “cinesino” – che in verità era ed è un Vietnamita arrivato da bambino come profugo negli Stati Uniti. Quan, appunto, star bambino ben presto finito nel dimenticatoio per tanti anni. Fino a questa sera. Quan, in lacrime, statuetta in mano, ha usato i 45 secondi a sua disposizione per dirci che storie come la sua sembrano poter esistere solo nei film. “Non posso credere a quel che mi sta succedendo. Questo è l’American dream”. Per poi concludere, “Please, keep your dreams alive!”, vi prego, tenete vivi i vostri sogni!
Ecco, per un attimo il mondo del Dolby Theater è sembrato vero e sono certo che almeno un po’ delle lacrime versate mentre Quan parlava fossero sincere. Sì, perché di solito le lacrime che si versano la notte degli Oscars sincere non lo sembrano proprio. Chi vince piange di gioia, ma chi perde piange (nascostamente) per invidia…
Non vado nel dettaglio delle premiazioni (lo trovate ovunque), ma aggiungo solo che mi ha colpito Lady Gaga con la sua “Hold my hand”. Lei, già regina delle carnevalate per un tot di anni, si è presentata sul palco in t-shirt e jeans, senza un ombra di trucco. E ha cantato. Bene, con voce e cuore.
Tre ore e mezzo di televisione per Quan e Gaga pero’ sono un po’ troppe…
God Bless America!
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