16 ottobre 1854: Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde nasce a Dublino in una famiglia alto-borghese dalle lontane origini inglesi. 14 febbraio 1895: la commedia The Importance of Being Earnest viene rappresentata per la prima volta al St. James’s Theatre di Londra, riscuotendo un successo senza paragoni. 25 maggio 1895: il giudice Sir Alfred Wills condanna Oscar Wilde a due anni di reclusione forzata per omosessualità. 30 novembre 1900: Oscar Wilde muore a Parigi, in Rue des Beaux-Arts 13, malato e abbandonato da tutti, con l’eccezione di pochi amici.
Queste date coprono l’eccezionale (e tragica) parabola della vita di uno dei più acuti e geniali autori del XIX secolo. Immagine vivente del cosiddetto dandy (o del flâneur di baudeleriana memoria), Oscar Wilde seppe fare realmente della propria vita un’opera d’arte, se vogliamo chiamare in causa il nostro D’Annunzio. Una devozione assoluta alla bellezza, la ricerca dell’eccentrico e del bizzarro come tensione struggente verso la perfezione estetica anche al di là di ogni etica, queste furono le linee dinamiche di un’esistenza che il giovane irlandese, prima brillante studente del Trinity College e poi ricoperto di onori come poeta a Oxford, condusse tra tanti successi, tanti rapporti e conoscenze, ma anche tra tante cadute. La sua è una di quelle esistenze che attraggono magneticamente, che ci fanno trovare improvvisamente incarnati, sulla nostra strada, valori e desideri che spesso vivono solo nell’astrazione intellettuale.
Conferenziere, giornalista, intellettuale, “esteta” in una parola, è noto in ambito letterario per averci lasciato capolavori come il romanzo The picture of Dorian Gray, e le opere teatrali Lady Windermere’s Fan, An Ideal Husband e – appunto – The importance of Being Earnest. Arcinota è anche la sua capacità di stravolgere il livello semantico del linguaggio, ottenendo in ogni situazione, anche quella più spinosa, un devastante successo, rispondendo con sentenze argute e inaspettate alle critiche. Sono conosciuti tanti dei suoi aforismi: “Vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte della gente esiste e nulla più”; “C’è al mondo una sola cosa peggiore del far parlare di sé: il non far parlare di sé”; o ancora, “L’unica cosa cui non posso resistere sono le tentazioni”.
Ma il suo lascito più personale, più intimo e struggente, è sicuramente la lettera che egli scrisse nel corso dei due anni di reclusione nel carcere di Reading (sulle cui mura l’anno scorso è comparso un murale di Bansky che probabilmente raffigura proprio Wilde in una fuga mai avvenuta fisicamente, ma forse – come testimonia la macchina da scrivere appesa al lenzuolo – esplicitatasi attraverso la scrittura); una lettera, dicevamo, pubblicata solamente postuma, caratterizzata da vicissitudini editoriali rocambolesche, e intitolata De profundis.
La lettera è indirizzata a Lord Alfred Douglas, un giovane di 27 anni che fu per qualche tempo l’amante di Oscar Wilde, e il cui padre, il marchese di Queensberry, fu la causa della rovina di Oscar Wilde: egli infatti diffamò pubblicamente quest’ultimo, e lo trascinò poi in tribunale facendolo condannare, in anni in cui l’omosessualità costituiva reato. Il giovane Alfred non ricevette mai la lettera (custodita fedelmente dall’intimo amico Robert Ross), e anche dopo l’uscita dal carcere di Oscar si comportò con lui come un adolescente viziato e volubile, intraprendendo un ultimo viaggio insieme in Italia e abbandonandolo sul più bello, in preda alla disperazione.
Nella sua lettera, che è un’autentica preziosità letteraria, Wilde mette a nudo la propria interiorità come mai aveva fatto prima; ma soprattutto esplora temi e ambiti di vita mai nemmeno sfiorati nella sua esistenza precedente. Uno su tutti, l’esperienza della sofferenza:
“Il dolore, dunque, e tutto ciò che esso insegna, è il mio nuovo mondo. Io vivevo unicamente per il piacere. Evitavo il dolore e le sofferenze di ogni genere. Li detestavo. Avevo risoluto di ignorarli fin dove era possibile, di trattarli cioè come forme di imperfezione. […] Ricordo bene come solevo dirle che non avevo nessuna intenzione di mangiare il pane del dolore, o passare anche una sola notte a piangere nell’attesa di un’alba ancora più amara. Non avevo idea che proprio questa fosse la sorte che i Fati tenevano in serbo per me; che anzi per un anno intero della mia vita non avrei quasi fatto altro. Ma questa è la sorte che mi è stata assegnata; e durante questi ultimi mesi, dopo terribili lotte e difficoltà, sono riuscito a penetrare alcune delle lezioni nascoste nel cuore della sofferenza. I predicatori, e le persone che son solite ripetere sentenze a orecchio, parlano talvolta della sofferenza come di un mistero. In realtà essa è una rivelazione. Si discerne ciò che non si è mai stati capaci a discernere. Si affronta l’intero corso della storia da un punto di vista differente”.
E ancora:
“Ora capisco che il Dolore, essendo la suprema emozione di cui l’uomo è capace, è insieme il modello e il banco di prova di tutta la grande Arte. L’artista è sempre alla ricerca di un modo di esistere in cui anima e corpo siano uniti e indivisibili; in cui l’esteriore sia espressione dell’interiore. Di tali modi di esistere ve ne sono non pochi; […] il Dolore ne è il prototipo, nella vita come nell’Arte. […] Per questa ragione nessuna verità è paragonabile al Dolore. Vi sono momenti in cui il Dolore mi appare come l’unica verità. Altre cose possono essere illusioni dell’occhio o degli appetiti, fatte per accecare quello o nauseare questi, ma dal Dolore sono stati creati i mondi, e alla nascita di un bimbo o di una stella assiste la sofferenza”.
Nell’esperienza dolorosa e umiliante della prigione e dell’abbandono, Wilde sperimenta la sofferenza come strada verso la riscoperta del proprio io, della piena coincidenza con sé stesso, sempre cercata e mai del tutto conquistata. Da questa condizione, così profondamente nuova, deriva anche la riconsiderazione della figura del Cristo, che si staglia nella sua mente come episodio, unico nella vicenda dell’umanità, della perfezione umana, come supremo poeta e artista, e infine come primo, massimo “individualista” della storia: colui cioè che si è adoperato perché ciascun uomo potesse riconquistare e possedere la propria anima. Con grande acume Wilde nota che Cristo, piuttosto che essere filantropicamente preoccupato per la povertà nel mondo, era innanzitutto preoccupato per l’anima del giovane ricco che aveva di fronte; e che “quando egli dice ‘perdonate ai vostri nemici’, non lo dice per i nemici, ma per la salvezza dell’anima nostra”. Egli insegnava “che non vi era differenza alcuna tra la vita degli altri e la propria. […] [E] dalla venuta di Cristo la storia di ogni singolo individuo è – o può venir considerata come la storia dell’umanità”.
Ma il vero punto infuocato attorno a cui ruota tutta la riflessione rimuginante del De profundis, compreso anche l’affondo sulla figura di Cristo, è il grande, inarrivabile mistero dell’io, dell’anima, dell’essere umano in quanto tale. In un passo memorabile infatti viene detto che la gente “meccanica”, moderna, calcolatrice, sa sempre dove sta andando; ciascuno si propone un obiettivo e riuscirà in qualche modo a raggiungerlo, allontanandosi da se stesso; più radicale, misteriosa e vertiginosa è la strada di chi decide di tendere “soltanto a realizzare se stesso”, di chi sceglie per la verità del proprio io senza alcuna aggiunta esterna e fuorviante:
“Colui che desidera essere qualcosa di diverso da quello che è, diventare un membro del Parlamento, o un droghiere arricchito, o un avvocato di grido, o un giudice, o qualcosa di altrettanto noioso, riesce immancabilmente a diventare quello che vuole. È il suo castigo. Chi vuole una maschera è costretto a portarla. Ma con le forze dinamiche della vita, e con coloro in cui quelle forze s’incarnano, è diverso. Coloro che ambiscono soltanto a realizzare se stessi non sanno mai dove stiano andando. Non possono saperlo. Si capisce che in un certo senso, conoscere se stessi, come diceva l’oracolo greco, è necessario: è anzi il primo passo del Sapere. Ma riconoscere che l’animo umano è inconoscibile, questo è il risultato supremo della sapienza. Il mistero finale risiede in noi.
Quando si sia pesato il sole sulla bilancia, misurata la distanza dalla luna e disegnata stella per stella la stanza dei sette cieli, resta ancora da esplorare se stessi. Chi può calcolare l’orbita della propria anima”.
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