Qualche ritardo per la liberazione degli ostaggi, e anche per la relativa tregua (il cui inizio è stato fissato per le 7 di stamane) in un’operazione complessa come quella messa in atto con la mediazione di Egitto e Qatar c’era da aspettarselo. Il problema che ha allungato i tempi potrebbe essere la lista dei nomi delle donne e dei ragazzi detenuti nelle prigioni israeliane, quelle 150 persone da scarcerare in cambio dei 50 ostaggi rapiti da Hamas.



Resta il problema degli sfollati. Per il momento, spiega Fausto Biloslavo, inviato di guerra de Il Giornale, fresco reduce da Israele, sono stati concentrati nel Sud della Striscia, non lontano dal confine con l’Egitto, ma la guerra arriverà anche lì, anche perché proprio a Khan Yunis potrebbero rifugiarsi Sinwar e Deif, i capi di Hamas che hanno promosso l’attacco del 7 ottobre. Il pressing della UE sul Cairo perché accetti i profughi in cambio di aiuti per ora non ha sortito effetti. E anche gli stessi palestinesi sanno che una sistemazione all’estero rischia di diventare definitiva, precludendo loro la possibilità di tornare nella loro terra.



Intanto, in tema di liberazioni, si torna a parlare della possibilità futura di rilasciare Marwan Barghouti, ora in carcere, che potrebbe essere il successore di Abu Mazen all’ANP.

Come mai le operazioni di liberazione degli ostaggi sono state ritardate rispetto a quanto previsto inizialmente?

Il ritardo sugli ostaggi è quasi normale data la situazione, fino all’ultimo bisogna affinare i dettagli, magari sui nomi delle persone da liberare da una parte e dall’altra. Però che lo scambio di donne e bambini fosse una concreta possibilità si sapeva fin dall’inizio. E di fatti si sta attuando. Tra l’altro si tratta dei primi ostaggi, le donne e i bambini rapiti in tutto sono 80. La tattica di Hamas è chiara: vista la malparata sotto l’aspetto militare, liberano gli ostaggi con il contagocce per cercare di riprendere fiato.



Com’è il sentiment dell’opinione pubblica israeliana nei confronti del tema ostaggi? Si tratta di un argomento molto sentito?

È assolutamente sentito, ci sono mobilitazioni continue sia a Tel Aviv che a Gerusalemme; stiamo parlando di 240 persone che hanno famiglie e amici. Si è interessato a loro anche chi non li conosceva. Posso riferire, però, quello che mi ha detto un ufficiale dell’esercito israeliano ferito gravemente una volta uscito dal pericolo di vita: “Lo dico con la pena nel cuore, ma a Gaza, se vogliamo andare fino in fondo e ottenere l’eliminazione militare e politica di Hamas, bisogna combattere come se gli ostaggi non ci fossero”. Si tratta di un componente della Flottiglia 13, i Navy Seal israeliani, corpi speciali della Marina, intervenuto per liberare gli ostaggi di uno dei kibbutz più devastati da Hamas. Uno che ha combattuto per tredici ore di seguito e la sa lunga sulla guerra. Quello che mi ha detto è ciò che Israele sta facendo, pur lasciando aperte le soluzioni diplomatiche, affidandosi ai servizi segreti e con l’aiuto di Egitto e USA, oltre a quello interessato del Qatar.

La prima tranche di ostaggi riguarda donne e bambini: la loro liberazione ci autorizza a pensare che c’è una possibilità anche per gli altri?

Non so se si andrà al di là di questo. Ci sono anziani e civili che potrebbero rientrare, ma anche militari, catturati mentre erano in servizio. Poi oltre ad Hamas, in gioco, in questo caso, c’è anche la Jihad islamica. Per i militari difficilmente accetteranno un rapporto di tre detenuti per un ostaggio come è stato per questo accordo. Quando nel 2011 fu liberato il caporal maggiore Gilad Shalit fu scambiato con oltre mille persone. Sono i numeri a cui pensava Hamas, anche se ora non può pensarci più.

Come è stata stilata la lista dei prigionieri palestinesi da liberare in cambio degli ostaggi?

Lo slittamento della liberazione probabilmente riguarda proprio i loro nomi. Sono state fissate delle regole: per prima cosa ostaggi e prigionieri da liberare devono essere equivalenti, donne e minori da entrambe le parti. Secondo: Israele punta a liberare chi non si è macchiato di reati di sangue, chi non è responsabile di attentati. E non sempre sarà possibile trovare rispondenza a questo criterio. Il braccio di ferro, quindi, è sui nomi accettabili.

In occasione dell’accordo si è tornati a parlare anche della eventuale liberazione di Marwan Barghouti, leader palestinese in carcere, che alcuni vedono come possibile successore di Abu Mazen. Gli israeliani potrebbero prenderla in considerazione?

È tutto un altro discorso. Barghouti, che ha cinque ergastoli, è un asso nella manica per tutt’e due le parti. L’ho conosciuto durante la seconda Intifada, lo avevo soprannominato il Napoleone di Ramallah. È una persona molto intelligente, un combattente palestinese, che ne ha combinate pure lui, ma non è un estremista alla Hamas, potrebbe essere una risorsa in un futuro che non riguardi solo Gaza ma tutti i territori palestinesi, anche la Cisgiordania. Ormai Abu Mazen è decotto, non è più credibile. Il discorso Barghouti fa parte di tutto un altro livello, di altri piani per il futuro, magari dopo questa montagna di sangue, per trovare una soluzione definitiva, che può essere solo quella di due popoli e due Stati, anche se difficile da raggiungere. Barghouti potrebbe giocare un ruolo, forse più nella West Bank. Si parla anche di Mohamed Dahlan, che però si è rovinato un po’ l’immagine, tanto che vive in esilio.

Resta intanto il problema degli sfollati palestinesi. È possibile trovare una soluzione?

Intanto bisogna dire che gli israeliani, con l’innovativo intervento di intelligence dell’unità 504, si sono occupati dell’evacuazione dei civili nella Striscia di Gaza. Sono riusciti nel bene o nel male a fare in modo che circa 800mila civili si trasferissero da Nord verso Sud. Numeri attendibili, anche se gli sfollati sono un milione e 700mila persone su 2 milioni e 200mila abitanti. Tra l’altro, l’unità 504 sa bene che tra le persone che hanno lasciato le loro case ci possono essere anche miliziani di Hamas, che non usano più le uniformi dell’attacco stragista del 7 ottobre ma abiti civili, proprio per mescolarsi tra la popolazione.

Come agisce l’unità 504?

Creano le condizioni per l’evacuazione agendo su Telegram e usando numeri dedicati, lanciando dieci milioni di messaggi mirati ai civili, rimanendo anche telefonicamente in contatto con gruppi consistenti. Hanno contribuito a evacuare mille persone dall’ospedale Rantisi. C’era un comandante di Hamas che li bloccava, non voleva lasciarli andare, sequestrando anche le chiavi delle loro auto. Poi sono riusciti ad andarsene a piedi, lasciando il nosocomio e defluendo verso Sud dopo che l’unità 504 è intervenuta eliminando la cellula di Hamas che impediva loro di andarsene.

Si può dare una sistemazione alle persone che hanno dovuto lasciare le loro case?

Il problema è che l’operazione a Gaza non è finita, anzi è appena cominciata. Il Nord non è ancora completamente sotto controllo degli israeliani, i quali, soprattutto, dovranno muoversi verso Sud, dove per il momento, in una località vicina al confine egiziano, si è cominciato a concentrare questi sfollati. Anche i giordani hanno allestito un ospedale da campo molto grande. Rimangono però delle roccaforti di Hamas come Khan Yunis: li chiamano campi ma ormai sono diventate piccole cittadine. Yahya Sinwar e Mohamed Deif, i capi di Hamas all’origine di questo disastro, potrebbero essere nascosti lì, oltre a esserci nati. Là ci sarà l’ultima battaglia, ma ci vorrà tempo.

Per gli sfollati si parla di un piano della UE per aiutare l’Egitto ad accoglierli e del ruolo che potrebbe avere il FMI concedendo fondi: una strada percorribile?

È un’ipotesi, probabilmente voluta anche dagli israeliani. Ma ci sono due problemi: gli egiziani, come tutti i Paesi arabi, non hanno tanta voglia di accogliere oltre 2 milioni di palestinesi o anche solo un milione. Soprattutto nel Sinai, che è già terreno fertile per i gruppi jihadisti e l’Isis. Gli stessi palestinesi temono che la sistemazione provvisoria che proporranno loro diventi definitiva, è già successo in altre occasioni del genere. Sanno, insomma, che rischiano di andarsene per sempre dal territorio in cui sono nati e cresciuti. Alla fine sarebbe una soluzione che non aggrada molto a più parti.

Quindi una soluzione al problema degli sfollati, almeno per adesso, non c’è ancora?

Si sta organizzando nel Sud della Striscia di Gaza, ma la guerra arriverà anche lì. Una soluzione temporanea, ma per il momento va bene così. Sotto questo aspetto non bisogna sottovalutare il ruolo dell’Italia: ha mandato due fregate lanciamissili, una nave ospedale che è pronta a intervenire anche in caso di tregua. Non escludo che fra tre o sei mesi, il tempo necessario per concludere l’offensiva contro Hamas, ci possa essere un coinvolgimento italiano com’era già stato a Beirut nel 1982, in una delle prime nostre missioni militari di pacificazione.

(Paolo Rossetti)

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