Ottavio Bianchi, allenatore che ha guidato il Napoli di Diego Armando Maradona al primo scudetto, ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera. “Sono sempre stato accettato come sono e i napoletani non hanno mai pensato di cambiarmi. Ricordo, da giocatore, il primo incontro con Achille Lauro. Mi disse: “Guaglio’, m’avevano detto che tenevi la capa tosta”, racconta. Al tecnico, la città ha trasmesso “la gioia di vivere. Basta saper osservare e ascoltare, è un insegnamento continuo. L’importante è non farsi assorbire”.



Quello scudetto, per Bianchi, “è stata una gioia incontenibile, con importanti risvolti sociali. Ma abbiamo ottenuto quello che meritavamo, niente di più”. Il Tricolore è arrivato non solo grazie a Maradona: “Sono più importanti il collettivo e l’organizzazione di gioco”. Con il calciatore ha avuto scontri “ma mi ha sempre rispettato”. Maradona, morto nel 2020, “avrebbe dovuto fare una vita più regolare, evitare certe frequentazioni. Un giorno gli dissi che avrebbe fatto la fine di un pugile allo sbando. “Vuoi proprio finire come Monzón?”. “Lei ha ragione, mister”, mi rispose,“ma io voglio vivere la vita con il piede che spinge sull’acceleratore.” Allora mi resi conto che non c’era niente da fare”.



Ottavio Bianchi: “Il mondo del calcio non mi manca”

Tra i presidenti incontrati nel mondo del calcio, Ottavio Bianchi ricorda con piacere “Corrado Ferlaino: un uomo dalle intuizioni geniali. Poi Dino Viola: mi ha insegnato a fare il dirigente. Ed Ernesto Pellegrini: una persona leale”. Massimo Moratti, invece, “mi ha inflitto il primo e unico esonero della mia carriera. Ma era giovane e schiacciato dal peso di cotanto padre. Ho nel cuore anche Achille Bortolotti, Romano Freddi e Gerardo Pelosi”. E oggi, nonostante l’addio al mondo calcio, non ha nostalgia: “Nessuna. Non sarei adatto. La mia educazione era completamente diversa. Dovrei ritornare a scuola”.



Infatti, “oggi conta più apparire che lavorare. La comunicazione è tutto. I giocatori sono aziende. Il calcio è lo specchio della società in cui viviamo”, spiega Ottavio Bianchi. Nel mondo del calcio è entrato prepotentemente il business: “Di sport vedo gran poco. Ormai è normale guadagnare 2-3 milioni netti di ingaggio. Conosco imprenditori con decine di dipendenti che non si sognano di mettersi in tasca così tanti soldi. La ricerca del guadagno rischia di stravolgere i valori con cui uno come me è cresciuto”.