L’overtourism non era scomparso, “si era solo preso una pausa” (The era of overtourism isn’t over, it’s just taken a break: così termina un’analisi di Michael Gebicki su Traveller). “Il turismo è sorprendentemente resistente, anche quando è bruciato dalla tragedia. Un anno dopo l’attentato di Bali stavano visitando l’Indonesia più turisti australiani che nel periodo immediatamente precedente alla catastrofe.



Nei due anni successivi agli attentati dell’11 settembre 2001, escludendo dalle statistiche i viaggi aerei nazionali e internazionali negli Stati Uniti, l’effetto del peggior attacco terroristico sul numero dei viaggi aerei del mondo è stato trascurabile. E quindi: le orde torneranno? Il fascino duraturo dei castagni che fioriscono lungo gli Champs Elysees di Parigi in primavera, una passeggiata lungo i canali di Amsterdam, il fascino del tramonto dalle scogliere di Santorini… La folla tornerà. E una volta che la fiducia torna (vaccini, farmaci…), quando la quarantena diventa un ricordo, bisogna aspettarsi uno tsunami di visitatori: né le autorità locali né i politici fanno nulla per arginare la marea. Perché dovrebbero? Di fronte ad albergatori, camerieri, ristoratori, tassisti e canoisti di gondola i cui mezzi di sussistenza sono stati sviscerati, la spinta per far girare nuovamente la ruota dell’economia è inarrestabile, e le voci della moderazione vengono soffocate”.



È abbastanza scontato che, dopo il disastro arrecato dalla pandemia e dalle chiusure forzate di strutture e attività, dopo la rarefazione di presenze, la desertificazione delle destinazioni e delle città, adesso l’ultimo pensiero riguarda proprio i rischi di un ritorno allo status quo ante. Anzi, si rema tutti in quella direzione, verso il recupero. “E comunque – dice Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi – siamo ancora ben distanti dall’overtourism come lo conoscevamo prima. Il 60-70% di occupazione nei week end per noi non si può davvero definire overtourism”. Effettivamente, adesso i maxiflussi nelle solite location (ad esempio Venezia) si registrano soprattutto nei fine settimana, e generati prevalentemente da turismo domestico, quello che intasa vie e piazze (per Venezia calli, rive e campielli), senza generare però presenze alberghiere. Oltre ai danni, le beffe.



“Negli ultimi anni pre-Covid – aggiunge Giorgio Palmucci, presidente di Enit, Agenzia nazionale del Turismo – abbiamo sofferto di fenomeni di overtourism in alcune destinazioni come Venezia, Roma, Firenze, Capri, le Cinque Terre, tanto da essere tema di riflessione anche a livello del G20 sulla sostenibilità. Sicuramente gli effetti della pandemia hanno portato alla situazione opposta, ma adesso occorre lavorare per una ripresa dei flussi evitando gli errori del passato, e quindi cercando di destagionalizzare e di deconcentrare il turismo italiano”.

Un rapporto della World Tourism Organization aveva redatto già nel 2018 un rapporto sull’overtourism, sottolineando la necessità di gestire i flussi per garantire la sostenibilità delle destinazioni. Nel rapporto figuravano 12 linee guida e 11 strategie da attuare per risolvere il problema: nuovi itinerari, nuove attrazioni, frammentazione dei visitatori, sistemi di monitoraggio e controllo. Tutte buone intenzioni, rimaste grossomodo sulla carta, delegando a divieti e provvedimenti di contrasto il compito di ridurre gli affollamenti. Di investimenti e impegni sulle destagionalizzazioni, sulle promozioni di destinazioni alternative, sulla germinazione di una cultura turistica più sostenibile e rispettosa dei territori e delle popolazioni residenti, si è visto poco, tranne forse l’ultima campagna su “borghi e cammini”. Ma qualcosa sembra stia cambiando, e il sentiment anche della politica sembra più attento. Un appello alla destagionalizzazione è arrivato ad esempio l’altro giorno dal ministro al Turismo Massimo Garavaglia alla conferenza di presentazione di Bmt (Borsa Mediterranea del Turismo). “Rimanete aperti il più possibile – ha detto rivolgendosi agli operatori del settore – perché bisogna pensare di lavorare tutto l’anno, destagionalizzando nel tempo e nello spazio, cioè allungando la stagionalità e allargando le destinazioni, riscoprendo località meno note, come i borghi e i percorsi ancora poco conosciuti. Il ministero è a disposizione per campagne e per tutto quello che può servire”.

Per iniziative diverse, bisognerà che tutti gli stakeholders guardino oltre l’oggi e programmino un futuro migliore del settore. Anche perché “l’intervento dello Stato è necessario ma deve essere temporale – ha aggiunto Garavaglia -: non è lecito che lo Stato si sostituisca all’attività del privato, altrimenti distorce il mercato, quindi se una persona cade l’aiuto a rialzarsi ma non a mettersi comodo”. Quindi, lo Stato fa (o dovrebbe fare) il suo. E le Regioni? Per l’84% dei quaranta professionisti del turismo, intervistati in uno studio Aiceo (l’associazione italiana dei ceo), in collaborazione con Deloitte, il turismo non dovrebbe essere competenza regionale. Meglio sarebbe puntare, secondo Aiceo, su una “digital transformation”, necessaria per assicurare il rilancio del settore. Per il 95% del campione la tecnologia svolgerebbe un ruolo chiave nel rilancio del turismo in Italia, e un portale digitale nazionale centralizzato sarebbe un buon incentivo (73%): una piattaforma digitale dove poter ricavare informazioni, pianificare viaggi e prenotare le vacanze, magari scegliendo su destinazioni altre, diverse dalle méte di massa. Le indicazioni di Aiceo hanno preceduto di poco le dichiarazioni del premier Mario Draghi che, nella conferenza stampa a chiusura del suo incontro con Ursula von der Leyen a Cinecittà sul Next Generation Eu, ha annunciato lo sviluppo di un portale digitale nazionale, in potenziamento dell’attuale Italia.it, con l’utilizzo di parte dei primi 24,1 miliardi di euro in arrivo entro luglio dall’Unione europea. È un primo passo, che tutti si augurano possa preludere a molti altri interventi.

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