L’aggressione russa all’Ucraina ha scatenato sul suolo europeo del vecchio continente una guerra totale, la più grave dalla fine della Seconda guerra mondiale. Guerra totale perché non si combatte sul solo piano militare, anche se ovviamente per ora è il più evidente. Guerra economica, guerra per le risorse, guerra per le commodities, per le catene di approvvigionamento.
Perché il blocco dei porti sul Mar Nero e la distruzione dei raccolti in Ucraina per i Paesi del Maghreb comporta crisi alimentari, non solo prezzi del grano e dei fertilizzanti alle stelle, ma addirittura carestia, e crisi alimentare sull’altra sponda del Mediterraneo vuol dire emigrazione, prima di tutto verso il sud Europa, Italia e Grecia in testa. Guerra per le catene di produzione, perché alla fine del conflitto sarà impossibile pensare alla globalizzazione come interdipendenza assoluta.
Guerra, infine, per la ridistribuzione del potere tra grandi potenze, secondo la logica dello scontro di civiltà di Huntington o della partizione dei Grossraum di Schmitt. Da una parte l’Occidente, Stati Uniti con l’anglosfera ed Europa richiamata all’ordine e alle sue responsabilità; dall’altra la Russia, retrovia profondo della Cina lanciata verso l’Africa e il Sud America. Guerra ibrida tra imperi che si annuncia lunga e dall’esito incerto, perché tra la guerra e la pace questa volta ci sono i molti conflitti combattuti con tutti i mezzi, militari e non. Perché questa volta lo scontro è planetario.
L’Europa che arriva all’appuntamento con la storia senza idee, in affanno, sorpresa come la bella addormentata. Con i costi della guerra in Ucraina ripartiti in modo diseguale tra Europa e Paesi anglosassoni, e tra gli stessi europei, con la Germania e l’Italia costrette a riorganizzare tutta la loro economia e addirittura lo stato sociale ed a fare , per se stessi quello che non avevano mai fatto per l’Europa: spendere per le armi, riarmarsi. E si scopre che i discorsi sull’autonomia strategica europea stanno a zero.
L’uomo europeo ha voluto troppo il benessere senza voler pagare i costi della sicurezza, anzi, ha fatto il furbo, sperando che gli altri, compresi gli amici potenti, non presentassero il conto, e che i contendenti diretti – leggi Russia – fossero entrati anch’essi nella dimensione post-eroica, secondo la definizione di Van Creveld. E pensando che la Russia si fosse convinta che McDonald vale più dell’identità e degli interessi strategici.
Ma non è così per tutto il mondo. L’uomo europeo ha la memoria breve, si dimentica di tutto; vive nel presente, di emozioni effervescenti, con il risultato di privarsi della forza della prudenza. Preferisce vivere di sussidi a pioggia e a debito, e non di politica economica. È un mutamento antropologico profondo, dove lavoro, figli, sacrifici, progettualità sono diventati antiquariato.
La politica è la prima vittima di questa trasformazione, con la conseguenza che la ricerca di successo immediato in cicli elettorali sempre più insignificanti non fa altro che aumentare l’eccitazione emotiva per l’oggi. In nazioni con Stati solidi, le istituzioni assicurano la continuità. Da noi, dove lo Stato è sempre stato debole, con Mani pulite che ha distrutto i partiti è sparita completamente, assieme alla memoria, anche qualsiasi visione del futuro.
Una situazione drammatica, quindi, aggravata dallo sfascio istituzionale. Basti pensare a quanto successe a Pratica di Mare in quel lontano maggio 2002, allo storico incontro tra George Bush ed un giovane Putin. Abbiamo misurato un successo strategico internazionale con l’avviso di garanzia a Berlusconi: si rileggano i titoli della stampa italiana di allora. I danni provocati dal circo mediatico giudiziario, la riduzione a macchietta criminale di un capo di governo e il pugno allo stomaco istituzionale significarono la squalifica di un leader, la sua delegittimazione agli occhi del mondo. Tolsero dalla scena diplomatica un mediatore straordinario e sputtanarono – scusate l’espressione forte – un intero Paese. Nessuno si accorse del risultato enorme. La storia non si scrive con i “se”, vero. Ma gli occhiali con cui l’Italia guarda il mondo sono graffiati, sporchi, incapaci di mettere a fuoco ormai il proprio ombelico.
Torniamo a Pratica di Mare. In quell’incontro, ricordiamolo, fu siglato uno storico accordo tra Nato e Russia in cui si dichiarava solennemente che i Paesi della Nato e e della Federazione Russa “stavano aprendo una nuova pagina nelle nostre relazioni tesa a rafforzare la nostra abilità di lavorare assieme” per rafforzare la comune sicurezza.
Putin quindi guardava a ovest, aperto all’Occidente, agli Stati Uniti e all’Europa. Non è vero, come spesso si dice, che la Russia fosse in ginocchio: nel 2002 il periodo del corrotto e incapace Eltsin era finito. Superato lo shock della caduta del Muro la Russia si stava riprendendo e cominciava a far sentire la sua voce diversa sulla scena internazionale. Prima guerra del Golfo (1990-91): la Russia, dopo l’appoggio all’intervento, riprese a tessere le fila dell’alleanza storica con l’Iraq e il Baath, il partito di regime da sempre filosovietico; nel gennaio del 1993 Mosca criticò l’azione punitiva anglo-franco americana contro le violazioni della no-fly zone (vedi i documenti di intelligence Usa declassificati) e accusò i Paesi occidentali di interpretare unilateralmente il mandato delle Nazioni Unite. Nel 1993, Eltsin a proposito della guerra nei Balcani mosse di nuovo le stesse dure critiche agli Stati Uniti, colpevoli di imporre la propria volontà alla comunità internazionale, e di condurre una guerra di aggressione. Nel 1994, la Russia si oppose a nuove sanzioni all’Iraq.
Da notare che queste contrapposizioni frontali del Cremlino alla politica americana non avvenivano certo in un periodo facile e quando Putin arrivò al potere, nel 1999, la Russia – che era in piena crisi economico-finanziaria, con l’inflazione alle stelle e la corruzione che dilagava – si stava riprendendo.
Se consideriamo questi aspetti storici, l’operazione di Pratica di Mare risulta ancor più straordinaria. Ed oggi appare realmente un’occasione perduta.
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