Sessant’anni fa, l’11 aprile del 1963, Giovanni XXIII promulgò la Pacem in terris con queste iniziali parole: “La Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio”.

Il cardinale Angelo Roncalli era stato eletto Papa il 28 ottobre 1958 alla veneranda età di settantasette anni. Molti pensarono che si trattasse di un pontificato di transizione. E così fu, in effetti, e non tanto per l’età di Roncalli, che morì il 3 giugno 1963, quanto per il fatto che Giovanni XXIII contribuì ad aprire una stagione nuova nella vita della Chiesa e della stessa società. Il suo fu un tempo dominato da paure e speranze: la costruzione del muro di Berlino, la crisi cubana, col fondato pericolo di una guerra nucleare, la difficile decolonizzazione dell’Africa, ma anche la conquista dello spazio, l’inizio di un benessere diffuso, la nascita della Comunità economica europea, l’apertura del Concilio Vaticano II.

La Pacem in terris è la prima enciclica sociale della Chiesa cattolica che indaga in modo sistematico i diversi presupposti della pace. Fermiamoci su quelli economici e chiediamoci se l’enciclica ha ancora qualcosa da dire a noi, in un tempo nuovamente dominato da paure e speranze.

La pace è la tranquillità dell’ordine (Pax … tranquillitas ordinis), aveva detto Sant’Agostino. Non c’è pace senza ordine, ripete Giovanni XXIII esplorando le diverse dimensioni dell’ordine sociale. La pace si costruisce, o si distrugge, innanzitutto, nel cuore di ogni persona in cui maturano sentimenti di amore, odio o indifferenza verso gli altri. La pace si costruisce, o si distrugge, poi, nelle relazioni interpersonali perché ciascuno vive insieme ad altri. Le relazioni interpersonali si sviluppano all’interno di singole comunità nazionali in cui sono storicamente sorte autorità politiche preposte alla cura del bene comune e cioè a creare e sviluppare quelle condizioni esterne che possono consentire a singoli e gruppi sociali di perseguire in modo pacifico i propri scopi. Le relazioni interpersonali si sviluppano, infine, tra le diverse comunità nazionali che compongono la comunità internazionale. Ed è su quest’ultimo piano che emerge forse il contributo più innovativo della Pacem in terris, anche sul versante economico.

Fino ad allora, la Chiesa cattolica aveva valutato la questione sociale in una serie di influenti encicliche. Per la Rerum novarum, promulgata da Leone XIII nel 1891, la questione sociale si poneva essenzialmente all’interno delle fabbriche del dominante capitalismo industriale e poteva essere attenuata, se non risolta, redigendo una carta di diritti e doveri delle rispettive parti sociali. La questione sociale coincideva cioè, essenzialmente, con la questione operaia. Per la Quadragesimo anno, promulgata da Pio XI nel 1931, proprio per commemorare il quarantesimo anniversario dell’enciclica leoniana, la questione sociale assumeva ormai una dimensione nazionale e non poteva più essere risolta, soltanto, attraverso un patto tra le parti sociali.

Cosa avrebbero potuto fare le singole imprese nella tempesta delle grandi crisi del capitalismo? Pio XI auspicava la costruzione di un’economia regolata e orientata verso fini di giustizia sociale che qualcuno ha confuso col corporativismo fascista. Trent’anni dopo, nel 1961, Giovanni XXIII promulga la sua prima enciclica sociale, la Mater et magistra, in cui, richiamandosi al ricco magistero sociale di Pio XII, afferma che la questione sociale deborda ormai anche dai confini nazionali e non può essere affrontata, né tanto meno risolta, dai singoli governi nazionali. La società moderna è infatti connotata da un nuovo fenomeno epocale: l’interdipendenza economica. Le economie nazionali sono reciprocamente dipendenti nel senso che ciò che accade in una si riflette sulle altre. Ne consegue che i singoli Governi non hanno più il potere, la forza, di determinare le sorti delle proprie economie.

Scrive Giovanni XXIII nella Mater et magistra (par. 187): “Pertanto le singole comunità politiche non sono più in grado di risolvere adeguatamente i loro maggiori problemi nell’ambito di se stesse con le sole loro forze; anche se sono comunità che emergono per l’elevato grado e la diffusione della loro cultura, per il numero ed operosità dei cittadini, per l’efficienza dei loro sistemi economici, per la vastità e la ricchezza dei loro territori. Le comunità politiche si condizionano a vicenda, e si può asserire che ognuna riesce a sviluppare se stessa contribuendo allo sviluppo delle altre. Per cui tra esse si impone l’intesa e la collaborazione”. Ovvero: l’interdipendenza economica esige la cooperazione internazionale.

Nella Pacem in terris Giovanni XXIII compie un altro decisivo passo in avanti che conduce la Chiesa, e l’umanità, nel nostro tempo.

Innanzitutto indica i principi che devono regolare i rapporti tra le diverse comunità nazionali: verità (ogni comunità ha il diritto di esistere), giustizia (ognuna ha il dovere di rispettare le altre), solidarietà (operante e reciproca), libertà (da ogni indebita ingerenza). Poi prospetta una nuova soluzione al problema dell’ordine internazionale. L’interdipendenza economica, secondo il Papa, ha assunto una dimensione e un’intensità tali per cui non basta più neppure la semplice cooperazione tra Stati nazionali sovrani. Per rispettare i fondamentali diritti della persona umana, che rimane il fine di ogni ordinamento sociale, occorre perseguire il bene comune universale e per tutelare il bene comune universale occorrono autorità sovranazionali preposte a tale compito.

Scrive Giovanni XXIII nella Pacem in terris (par. 71): “Il bene comune universale pone ora problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni; di poteri pubblici cioè, che siano in grado di operare in modo efficiente su piano mondiale. Lo stesso ordine morale quindi domanda che tali poteri vengano istituiti”.

Le istituzioni sovranazionali, come ogni altra autorità, dovrebbero avere il fine di tutelare i fondamentali diritti della persona, essere dotate di poteri effettivi e ispirarsi al principio di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni tra autorità pubbliche e società civile impedendo la concentrazione del potere verso l’alto: “Come il bene comune delle singole comunità politiche, così il bene comune universale non può essere determinato che avendo riguardo alla persona umana. Per cui anche i poteri pubblici della comunità mondiale devono proporsi come obiettivo fondamentale il riconoscimento, il rispetto, la tutela e la promozione dei diritti della persona: con un’azione diretta, quando il caso lo comporti; o creando un ambiente a raggio mondiale in cui sia reso più facile ai poteri pubblici delle singole comunità politiche svolgere le proprie specifiche funzioni” (par. 73). E ancora: “Come i rapporti tra individui, famiglie, corpi intermedi, e i poteri pubblici delle rispettive comunità politiche, nell’interno delle medesime, vanno regolati secondo il principio di sussidiarietà, così nella luce dello stesso principio vanno regolati pure i rapporti fra i poteri pubblici delle singole comunità politiche e i poteri pubblici della comunità mondiale. Ciò significa che i poteri pubblici della comunità mondiale devono affrontare e risolvere i problemi a contenuto economico, sociale, politico, culturale che pone il bene comune universale; problemi però che per la loro ampiezza, complessità e urgenza i poteri pubblici delle singole comunità politiche non sono in grado di affrontare con prospettiva di soluzioni positive” (par. 74).

È interessante notare come Jacques Delors, uno dei padri della nostra Europa, indicava proprio nella sussidiarietà il principio che avrebbe consentito di conciliare le diverse e legittime identità nazionali con la costruzione di istituzioni europee dotate di reali poteri di indirizzo e governo dell’economia.

In conclusione, qual è il messaggio economico che ci giunge dalla Pacem in terris? Mi pare possa essere questo: non c’è pace senza ordine, un ordine innanzitutto interiore e poi anche esteriore o sociale, interno alle nazioni e tra le diverse nazioni che compongono la comunità internazionale, che oggi ha bisogno di istituzioni preposte alla cura del bene comune universale, dotate di reali poteri di governo e rispettose del principio di sussidiarietà. Per noi, credo, significhi, innanzitutto, continuare a sostenere, col cuore e con la mente, la costruzione di un’Europa unita nella diversità o, come ha detto papa Francesco nel recente viaggio in Ungheria, “un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli”.

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