“Bisogna ricordare che l’Italia, lo dice l’articolo 11 della nostra Costituzione, ripudia la guerra. E ripudia la guerra non solo come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli, ma anche come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. È una forma di ripugnanza al sistema democratico, o per dirlo all’opposto, non vi può essere democrazia se si tollera la guerra. Certo, come diceva Luigi Einaudi, è necessario distruggere e bandire il dogma della sovranità perfetta, giudicato proprio da Einaudi il nemico massimo e assoluto dell’umanità e della pace”.
Questo l’incipit del primo incontro del nuovo ciclo di eventi organizzato dall’Associazione PadovaLegge, svoltosi ieri nell’Aula magna di Palazzo Bo dell’Università. Un incontro seguitissimo (Fronti di guerra, orizzonti di pace) introdotto dalla rettrice Daniela Mapelli, da un messaggio del governatore Luca Zaia, e dall’avvocato Fabio Pinelli, fondatore di PadovaLegge e oggi vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. “PadovaLegge – ha detto Pinelli – è stato il luogo della conoscenza, in cui riflettere sulla memoria del nostro Paese, per consentire ai cittadini una partecipazione alla vita sociale e per aprirsi anche a riflessioni per il futuro. Forse quando ragioniamo di temi così complessi dovremmo sempre ricordare di porre un grande punto interrogativo in ordine al valore salvifico delle leggi, anche costituzionali, o dei trattati internazionali, perché il tema dell’assenza e del ripugno della guerra stanno nella cultura e nei valori educativi dei popoli e dunque stanno al di fuori delle leggi e stanno semmai nella dimensione valoriale del diritto, cioè sull’obiettivo umanistico della legalità”.
“L’opinione comune è che, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il mondo abbia goduto di un lungo periodo di pace, almeno sino all’11 settembre 2001, il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle – ha esordito Luciano Violante, presidente emerito della Camera dei deputati –. Purtroppo non è vero. Il conflitto arabo-israeliano è del 1948-1949. La guerra di Corea comincia l’anno successivo e finisce nel 1953. Quella di Vietnam va dal 1964 al ’73. Quella dei Sei giorni si sviluppa nel 1967. Quella tra Iran e Iraq nel decennio 1980-’89. Quella delle Falkland nell’82. La prima guerra del Golfo è del 1990-’91. Quelle balcaniche vanno dal 1992 al ’95. L’invasione dell’Iraq comincia nel 2003. Dal 2001 al 2021 c’è stata l’invasione dell’Afghanistan. Abbiamo rimosso la verità per due ragioni. Subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, tutti erano proiettati verso un futuro di crescita e di benessere. Si voleva solo guardare avanti. Siamo perciò ricorsi a quello che io chiamo l’illusionismo giuridico, parlando di intervento umanitario, di polizia internazionale, di State Building, di esportazione di democrazia. L’ha fatto anche Putin, chiamando operazione militare speciale la guerra scatenata in Ucraina. Di fronte a tragedie che non riusciamo né a prevenire né affrontare, abbiamo utilizzato il diritto in una delle sue funzioni primarie, come lavatrice della storia. Il diritto è una straordinaria invenzione: nella sua apparente neutralità tranquillizza gli animi, lava il fango e il sangue, parifica in astratto ciò che è diseguale e concreto, deodora gli avvenimenti, ne neutralizza la tragicità attraverso eleganti definizioni, li colloca in categorie apparentemente oggettive e mette tutto a disposizione della sapienza del giurista. Ma oggi non possiamo più mentire a noi stessi. La vita è perdente. La morte domina il nostro tempo”.
“Intere generazioni di giovani – ha continuato Violante – sono uccise dall’Ucraina a Israele, a Gaza, dal Nagorno-Karabakh al Sudan, e tacciamo delle vite dei giovani russi mandati a morire da Putin, come se stare giustamente con gli ucraini ci debba rendere indifferenti di fronte alla morte di loro coetanei russi. La morte domina il nostro tempo non solo a causa della guerra. Oltre alle guerre ci sono i morti per immigrazione. La morte diventa più forte. Le democrazie non riescono a sciogliere il groviglio. Gli inseguiti, i fuggitivi, i profughi, i poveri sono diventati un indistricabile problema politico. Oggi si chiede la pace, ma la vita è più della pace, perché si occupa delle persone, mentre la pace si occupa degli Stati. Le ragazze iraniane rischiano il carcere gridando donna, vita, libertà. Non vogliono la pace, vogliono la vita. Perché dalla vita nasce la libertà. Forse sono più avanti di noi. I fuggitivi sono gli indesiderabili del ventunesimo secolo. Eppure nella storia d’Europa, tra tragedie e trionfi, sono nati i diritti dell’uomo. Qui li abbiamo difesi e sviluppati come forse nessun altro continente, a cominciare dall’abolizione della pena di morte. Per questa ragione l’Europa ha una propria specifica legittimità a porre il problema della sconfitta della morte e del diritto alla vita. Ma non lo facciamo. L’individualismo esasperato e la crescita di gerarchie di interessi privati ha portato al relativismo nei confronti della vita e della morte. Ma non credo che dobbiamo rassegnarci: difendere la centralità della vita significa uscire dalle gabbie del relativismo e proporre nuove gerarchie di valori”.
“La profezia del Papa sulla guerra mondiale a pezzi, che ad alcuni apparve quasi esagerata – ha detto l’ex premier Paolo Gentiloni, commissario europeo per gli affari economici e monetari – sembra verificarsi, perché contemporaneamente ci sono delle situazioni tragiche, allarmanti in diverse parti del mondo che non si risolvono e che suscitano allarme. Credo questo corrisponda al venir meno di un ordine mondiale, perché sì, le guerre sono state sempre presenti, ma noi abbiamo vissuto nel corso degli ultimi 50-60 anni almeno due varianti di un certo ordine mondiale, un ordine basato su due grandi superpotenze per molti decenni e poi a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso un ordine apparentemente affidato al prevalere di un singolo paese, gli Stati Uniti, usciti vincitori dalla Guerra fredda, dopo il crollo del Muro. La percezione del rischio viene dal fatto che non è chiaro chi possa farsi carico della soluzione di questi problemi. C’è una crisi di fiducia, a mio parere esagerata, nelle Nazioni Unite, c’è una crisi dell’idea di un ordine mondiale e anche della sua architettura economico-finanziaria che era uscita dalla Seconda guerra mondiale e che oggi non regge più. Il Fondo monetario, la Banca mondiale, tutto quello che è nato dopo la Seconda guerra mondiale oggi appare in crisi”.
“Abbiamo avuto enormi flussi migratori – ha proseguito Gentiloni –, oltre 4 milioni di migranti dall’Ucraina, che ci coinvolge molto più direttamente che non il conflitto in Corea o in Afghanistan o in Iraq. Tutto questo, secondo me, ci mette di fronte ad un interrogativo che forse la mia generazione non ha mai avuto: in che modo nei prossimi anni il rischio di guerra si presenterà? Siamo devastati dalle immagini che sono venute prima da Israele e adesso da Gaza. Ma l’inquietudine più profonda, almeno per me, riguarda il conflitto che c’è in Ucraina, perché di quel conflitto faccio fatica a vedere una soluzione. Se l’invasore alla fine avrà la meglio, penso che l’ombra della guerra e le ombre sulle nostre libertà nei prossimi anni diventeranno molto pesanti in Europa. E per questo mi fa molto piacere che si lavori per la pace, ma penso che gli spazi di lavoro, gli spiragli di dialogo per la pace in questa guerra dipendono moltissimo dalla possibilità che l’Ucraina non venga sopraffatta. Penso a come resistere in queste tenebre, a come affrontare una missione umanitaria difficile per il recupero di quasi 20.000 bambini ucraini sottratti”.
“C’è un termine che mi colpisce: il sonnambulismo – ha detto il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana –. Un termine che serve a descrivere quello che stiamo vivendo. E c’è anche una frase che mi lascia un segno: il silenzioso protagonismo della morte. Alla quale si finisce con l’abituarsi, e divenire appunto sonnambuli. Il Papa parlando di una guerra mondiale a pezzi voleva dire: state attenti perché anche quello che non sembra che ci riguardi, al contrario ci tocca. Quando Francesco ha pensato alla missione, pensava anche ad una mediazione, ma soprattutto voleva non rassegnarsi. Quando è andato a Budapest ha chiesto: dov’è finita la pace creativa? Perché non vi inventate qualunque cosa? Noi facciamo delle cose perché pensiamo al risultato. Ma vale la pena comunque tentare, non è un problema di risultato”.
“Non ci possiamo abituare – ha detto ancora il cardinale –. Io penso che la nostra generazione, e l’Europa, abbiano un dovere in più, dato dalla consapevolezza di che cos’è stata la guerra e quindi che cosa significa il rifugio. Viviamo in un periodo di sovranismo, con l’illusione di recuperare sovranità e quindi importanza, mentre al contrario occorre perdere per trovare una vera capacità di risoluzione dei conflitti. L’indebolimento di tutti gli strumenti, nati dopo la Seconda guerra mondiale, di composizione dei conflitti non può non preoccuparci. Credo che l’evidenza tragica delle guerre debba portare ad un risveglio, ad una passione per identificare nuovi metodi, nuove agorà. Non possiamo dismettere l’idea che è il dialogo che può portare alla composizione dei conflitti, altrimenti resta solo la violenza”.
“Quasi trent’anni fa, nel 1994 – ricorda ancora Gentiloni –, a Budapest fu firmato un accordo da Clinton, Eltsin e Kravchuk, presidente dell’Ucraina: l’Ucraina, uscita dall’Unione Sovietica, rinunciava all’arsenale atomico, il terzo per importanza nel mondo, a condizione che fossero rispettati i suoi confini. Adesso Putin e Medvedev ventilano la minaccia nucleare per vincere la loro invasione in Ucraina. Come può reagire l’Europa, che non è mai riuscita a superare la soglia della vera rilevanza geopolitica? Avevamo tutti nutrito – soprattutto i tedeschi – una straordinaria illusione sull’evoluzione della Russia. Ma in Russia dopo Eltsin è maturata un’ambizione imperiale che non si è mai dismessa e che ha cominciato a dare i primi segni nel modo in cui è stata affrontata la questione, certo difficilissima da affrontare, della Cecenia e poi della Georgia e poi della Crimea e adesso dell’Ucraina. Io ero ministro degli Esteri qualche mese dopo l’annessione della Crimea: la risposta all’epoca fu una risposta molto meno netta di quella che è maturata nell’Unione Europea due anni fa. Io ricordo che per decidere delle sanzioni individuali ad alcune singole personalità si facevano riunioni di 10-15 ore tra i ministri degli Esteri europei, perché c’era ancora la speranza di italiani, tedeschi, francesi per una ripresa di dialogo, di dialogo economico, in grado di fermare quella degenerazione. Oggi la situazione è molto diversa, l’Ue ha reagito all’invasione dell’Ucraina in modo apparentemente molto rapido, molto forte. Ma pensando ai prossimi 20-30 anni, dobbiamo pensare innanzitutto al rapporto con il Mediterraneo, con l’Africa, con il Golfo, con una parte del mondo che avrà presto più di 2 miliardi di abitanti e che dal punto di vista economico-demografico ci lancia sfide enormi. Certamente l’Ue è diventata più adulta rispetto all’atteggiamento da tenere nei confronti della Russia di Putin, ma al tempo stesso la sua maturazione come attore politico globale è ancora molto indietro”.
“Siamo alla vigilia delle elezioni europee – ha concluso il presidente –. Su alcune materie gli anni che abbiamo alle spalle ci hanno fatto intravedere cosa può fare l’Ue, come la risposta alla pandemia, sia in termini sanitari e sia in termini economici, quindi vaccini, Next Generation EU e fondi comuni. Tutte cose che a raccontarle 4-5 anni fa sarebbero apparse impossibili. Per la fatica dei processi decisionali delle democrazie, per l’apparente rapidità in come decidono le autocrazie, per il ritorno dei nazionalismi, dei sovranismi e i rischi di guerra, credo che per la prima volta forse si sentirà discutere parecchio di Europa. La solidarietà economica che si è riusciti a fare dopo la pandemia non può fermarsi: altre operazioni di fondi comuni per beni comuni sono indispensabili, così come per le riforme che l’Unione deve fare se vuole far entrare altri Paesi, perché un’Ue allargata ma con gli attuali meccanismi decisionali rischia di essere più debole di quanto non sia oggi. Abbiamo visto immagini terribili il 7 di ottobre, vediamo delle immagini terribili in queste settimane. Noi anche lì siamo il principale donatore di aiuti economici all’autorità palestinese, a tutte queste popolazioni, ma non abbiamo un vero ruolo politico. Perché? Perché alle Nazioni Unite l’Unione Europea ha votato in tre modi diversi le risoluzioni su Gaza. Abbiamo messo in luce, più che sull’Ucraina, la fragilità dell’UE in un’area che non è meno importante per noi rispetto all’Ucraina”.
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