Sorprende la recente sentenza della Corte costituzionale, per cui un uomo, nonostante non esista più nessun rapporto con la moglie, da cui è separato da alcuni anni, non può opporsi alla decisione della donna, che vuole comunque, sia pure a distanza di anni, farsi impiantare uno degli embrioni ottenuti con la Pma e congelati in attesa di decidere quando completare l’iter della fecondazione. Lo stabilisce la sentenza n. 161 del 24 luglio 2023 della Corte Costituzionale. In questo caso la coppia aveva fatto ricorso alla Pma per poter avere un figlio di cui avrebbero condiviso la cura sotto tutti gli aspetti, affettivo ed educativo, mantenendolo come era giusto e doveroso che facessero. Il loro rapporto però nel tempo si è deteriorato e l’uomo avrebbe voluto ritirare il suo consenso, non desiderando più farsi carico del figlio, non ancora nato, con una donna con cui non voleva più avere nulla a che fare. Tre le considerazioni che si possono trarre dalla sentenza in questione.



La prima riguarda la peculiarità del desiderio di maternità della donna. Nella sentenza si legge che l’accesso alla fecondazione comporta per la donna “il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo…”. La donna infatti ha accettato tutte le procedure collegate alla Pma contando sul “consenso dell’uomo al comune progetto genitoriale … perché la genitorialità coinvolge rischi, aspettative e sofferenze”.



La seconda considerazione riguarda la questione della irrevocabilità del consenso, in quanto “funzionale a salvaguardare innanzitutto preminenti interessi”. Tra questi: “la tutela della salute fisica e psichica della madre, e anche la dignità dell’embrione” per cui risulta ragionevole la compressione della libertà di autodeterminazione dell’uomo.

La terza considerazione riguarda il tema della parità dei sessi, perché leggendo la sentenza sembra proprio che questa volta sia la donna ad essere in posizione di superiorità e di fatto la sentenza afferma che la donna “è coinvolta in via immediata con il proprio corpo, in forma incommensurabilmente più rilevante rispetto a quanto accade per l’uomo”.



In conclusione, dalla lettura, sia pure rapida della sentenza, si possono dedurre tre punti interessanti su cui riflettere:

1. la parità tra i sessi non è un assoluto, dipende dai valori in gioco, in questo caso la salute della donna e il suo desiderio di maternità, supportato dal consenso iniziale dell’uomo che ha attivato una serie di processi irreversibili;

2. il coinvolgimento, sul piano fisico oltre che emotivo, della donna durante la fase della gestazione, inizia ben prima, e offre argomenti contro qualsiasi forma di maternità surrogata che preveda l’utero in affitto;

3. e infine la consapevolezza che la vittima in questi casi resta pur sempre il bambino. È vero che la sentenza pone chiaramente in evidenza il suo diritto a nascere, ma il rischio che corre è quello di crescere in un contesto conflittuale, con un padre che non sembra disposto a farsi carico di tutti gli oneri e gli onori della paternità.

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