Mattia aveva quindici anni quando, l’8 dicembre scorso, è morto nella tragedia della discoteca di Corinaldo. Ieri La Stampa pubblicava una lancinante lettera in cui il padre voleva “esternare tutto l’odio possibile”. Immagino che l’occasione fosse data dalla notizia che davano i giornali, ovvero la richiesta di controperizia alla discoteca “Lanterna Azzurra”, chiesta dai legali di alcuni indagati e che rischia di rendere più lievi le condanne.
In ogni caso il papà nella lettera chiede la Giustizia con la “G” maiuscola, arrivando ad augurarsi che “chi ha causato questo crimine, dalle Istituzioni, alle persone responsabili dell’accaduto” arrivino a “dannarsi l’anima” promettendo loro non solo nessun perdono ma odio addirittura, augurando loro di “passare il resto della loro squallida vita in galera”.
Chi si scandalizza di queste frasi dovrebbe aver presente non solo la differenza tra giustizia e vendetta, non tanto che la parola “perdono” va usata con grande parsimonia verso chi ha sofferto delle gravi ingiustizie, perché la parola perdono è una parola pericolosa, tagliente, con la quale, invocandola fuori luogo, puoi far soffrire ancora di più chi ha la ferita sanguinante, ma dovrebbe ricordare soprattutto che a chi soffre bisogna dare il tempo. Il tempo di urlare, di arrabbiarsi, di piangere.
Per smettere di piangere ci vuole tempo: il tempo di piangere. E solo l’interessato può sapere quanto è lungo questo tempo. Nessuno può stargli vicino con il cronometro in mano dicendogli “adesso basta, il tempo è finito”. Questo si fa con i bambini che fanno i capricci: non con un uomo che ha perso il figlio quindicenne in una serata in discoteca dove lo sapeva a divertirsi.
Oltretutto, alcune riflessioni di Giuseppe Orlandi, così si chiama il papà di Mattia, sono assolutamente condivisibili: aumentare la cultura della sicurezza, vigilare sull’idoneità degli edifici, tutelare i minori.
Detto questo, vorrei scrivere a Giuseppe due parole che però non deve leggere ora, ma solo quando sarà venuto per lui il tempo giusto; quando sarà il momento, sappia Giuseppe che la vendetta non porta la pace. È come cercare di “picchiare” il fuoco dopo che ci si è bruciati: ci si scotta solo di nuovo. Tenersi aggrappati alla speranza della vendetta è come tenersi cara la spina che continua a penetrarci la carne. La vendetta è una schiavitù che ci inchioda al dolore senza lenirlo mai.
Giusto chiedere giustizia, giusto chiedere chiarezza, giusto chiedere sicurezza, ma senza immolare nessuno, in primo luogo se stessi. Giuseppe, non ora, quando sarà, magari tra vent’anni, quando sarà il momento, deve darsi scampo: nessun “marcire in carcere” per nessun colpevole, riporterà in vita Mattia.
Liliana Segre raccontava una volta di una circostanza alla fine della guerra in cui lei aveva adocchiato un soldato tedesco mentre si spogliava dell’uniforme per sfuggire alla vendetta e alla prigionia: in quel frangente Liliana, che aveva subito gli orrori dei campi di concentramento, ebbe sotto mano la pistola del soldato. Avrebbe potuto sparargli vendicandosi così delle angherie subite, ma quella pistola restò per terra. Liliana realizzò in quel momento di essere veramente diversa da coloro che avevano commesso le atrocità perpetrate contro di lei e il suo popolo: perché lei era incapace di uccidere un uomo. La mancata vendetta fu nel suo caso una liberazione, una conferma di superiore dignità, un ribadire con un gesto di pace, il valore della giustizia. Quella vera. Quella che non si riduce mai al regolamento di conti. Alla ricerca del capro espiatorio.