Ci apre un sacco di questioni, la storia di Dawud.
Dawud ha dodici anni. Viene dal Bangladesh. In prima elementare – a Montecchio Maggiore, provincia di Vicenza – è stato bocciato. Per forza: non capiva una parola di italiano. Ma il papà di un suo compagno di classe non c’è stato: se l’è preso in casa, ha cominciato ad aiutarlo a fare i compiti. È saltato fuori che Dawud è un bambino sveglissimo: ha imparato l’italiano alla grande, ha finito la quinta elementare con i voti migliori della classe. Non solo. Si è rivelato un genio degli scacchi. Si è appassionato alla lettura, ha divorato Verne e Salgari, è arrivato ad Anna Frank e Malala. E ha cominciato ad avere qualche dubbio sulla religione in cui era cresciuto.
A questo punto, il padre ha detto basta: mio figlio non può essere traviato dalla cultura occidentale. Lo ha caricato su un aereo e lo ha rispedito in Bangladesh. L’ultimo whatsapp di Dawud all’amico è drammatico: “Aiutami, mi hanno detto che mi portavano dal medico ma mi hanno messo su un aereo. Sono a Dubai e mi stanno portando in Bangladesh!”
Il papà del compagno di classe, l’uomo che lo ha introdotto alla nostra lingua e alla nostra cultura, si è rivolto a Di Maio e a Mattarella. La gente del paese sta pensando a iniziative che possano riportare Dawud in Italia. Tutti, di getto, facciamo il tifo perché Dawud torni. Ma, prima, non possiamo non farci una domanda: perché il papà di Dawud non ha il diritto di crescere il figlio nella cultura in cui lui si riconosce? Io, tanti miei amici, abbiamo sempre lottato per il diritto dei genitori di crescere i figli nella propria cultura, abbiamo fondato scuole per questo, abbiamo difeso la libertà di educazione per questo. Perché il papà di Dawud non dovrebbe avere il diritto di difendere il figlio da una cultura che, dal suo punto di vista, è male?
Potremmo rispondere: perché quella cultura il papà di Dawud l’ha accettata. L’ha accettata di fatto: è venuto in Italia, abita qui da più di vent’anni, lavora qui. Gode i frutti della nostra tradizione. Però non l’ha accettata lealmente, non l’ha accettata fino in fondo: in cuor suo, è sempre rimasto fedele alla tradizione in cui è cresciuto, là in Bangladesh.
Questo, io credo, è il punto cruciale: non puoi prendere i frutti di una cultura senza accettare per lo meno di confrontarti lealmente con le sue radici. Perché l’Italia, l’Europa, offrono più lavoro, più occasioni di crescita, più possibilità di sviluppo del Bangladesh? Perché sono figlie della cultura cristiana, della cultura liberale, della cultura socialista. Sono questi modi di intendere l’uomo che hanno generato la scienza e la tecnologia, la società industriale, la solidarietà e i tentativi di costruire una giustizia sociale.
Allora non puoi venire in Italia, in Europa, godere dei benefici della nostra tradizione e cultura e continuare ad avversarle. E questo è un primo problema: quanti immigrati arrivano qui, lavorano – onestamente, alacremente –, mettono su casa e famiglia, partecipano ai nostri meccanismi sociali, ma in realtà non vogliono fare i conti con la cultura che ha generato tutte le possibilità di cui loro godono?
Ma questo problema ne apre un secondo, più grave: quanti di noi – quanti italiani, quanti europei – sono consapevoli di questo valore? Quanti italiani, quanti europei vanno ripetendo, da decenni, che tutte le culture sono uguali, che hanno lo stesso valore, guai a noi se ci sogniamo di pensare che la nostra abbia qualcosa di meglio? Anzi, peggio: quanti continuano da decenni – un titolo per tutti, Il singhiozzo dell’uomo bianco di Pascal Bruckner – a ripetere che la nostra cultura è la peggiore di tutte, che siamo i soli colpevoli di tutti i mali del mondo?
Allora, signori, delle due l’una: o noi occidentali siamo brutti e cattivi, siamo i tiranni e la peste del pianeta; e allora il padre di Dawud ha fatto bene a strappare il figlio dalle nostre grinfie sanguinarie. Oppure, come scrive Bernard Lewis in Culture in conflitto, “Noi occidentali abbiamo spesso fallito in modo catastrofico rispetto a coloro che sono diversi da noi, e il nostro deprimente curriculum di guerre e persecuzioni è lì a dimostrarlo. Ma pure c’è qualcosa di ideale per cui abbiamo lottato e in qualche caso ottenendo un certo successo. Imperialismo e sessismo sono parole di conio occidentale, non perché l’Occidente abbia inventato quelle piaghe, ma perché le ha riconosciute, ha dato loro un nome e le ha condannate come mali e perché le ha combattute con forza – e non del tutto invano – per ridurne la presa ed aiutarne le vittime”.
Non siamo più cattivi degli altri: guerre, ingiustizie, violenze sono patrimonio dell’umanità intera. Neanche più buoni, per carità. Però abbiamo provato a limitare la cattiveria e l’ingiustizia, a difendere l’orfano e la vedova. Di questa eredità dobbiamo essere grati. Questa eredità dobbiamo difendere con fierezza.
Allora potremo dire con ragione al papà di Dawud che ha sbagliato. E speriamo che la politica aiuti il piccolo Dawud a tornare a leggere Salgari e a giocare a scacchi (gioco che, peraltro, viene dall’India o giù di lì…).