La geografia dell’orrore ci porta questa volta a Margna, in Valsassina. Un uomo di quarantacinque anni, con un matrimonio sull’orlo del fallimento, ha strangolato in una notte i suoi due figli, gemelli dodicenni, per poi suicidarsi. L’uomo, nell’onda della follia, ha sia postato su Instagram la foto sua con i figli, commentando che loro tre sarebbero per sempre stati insieme, sia inviato un macabro messaggio alla moglie, comunicandole che non avrebbe mai più rivisto i ragazzi.



A che punto può arrivare l’abisso che ci portiamo dentro e che riemerge, ogni volta più potente, quando ci sentiamo sconfitti, fregati, traditi, abbandonati? Come può un matrimonio diventare l’abominevole partita delle ripicche, fino a considerare gli stessi figli alla stregua di pedine da muovere per vincere la guerra contro l’altro? In che modo una donna può ricominciare dopo la devastazione di un gesto del genere, che la condanna senza appello ad un vuoto e ad una memoria straziante?



Bisognerebbe avere la saggezza che Dio mostrò a Giobbe per rispondere a questioni così grandi e drammatiche, eppure c’è un fatto – totalmente umano – che chiunque si stia sposando dovrebbe sapere e accettare: “Amore mio, noi due falliremo, ci sapremo fare del male, ci allontaneremo”. Non è possibile vivere l’esperienza dell’amore evitando il tortuoso sentiero del fallimento, non è possibile amarsi se non scoprendoci capaci di meschinità che ci allontaneranno, provocando fra noi un rinnovato sentimento di estraneità.

Tutto questo nel sogno degli innamorati non c’è o, se compare, è ben nascosto dal desiderio di correre a celebrare il proprio disegno di felicità finalmente realizzato, schizzo autoprodotto che non ammette di essere scalfito.



Eppure chi si ama, e chi intende costruire una vita insieme, dovrebbe essere consapevole che ad un certo punto le cose ci spingeranno così tanto nell’abisso l’uno dell’altro da dover di nuovo decidere di conoscersi, di spendere del tempo per tornare ad incontrarsi, di dover ammettere molte morti per imparare a festeggiare immeritate resurrezioni. L’amore non è una favola, il matrimonio non è un lieto fine, Dio non è un feticcio cui aggrapparsi che garantisca magiche o miracolose riconciliazioni: il bene è una strada in cui occorre sapersi scegliere e sapersi perdere, sapersi salutare e sapersi ritrovare.

Sta a qualcun altro giudicare l’empietà della cosificazione di un figlio, sta a qualcun altro deliberare sul delirio di un uomo che si erge a sovrano di un mattatoio i cui animali da macello sono i propri figli, sta a qualcun altro trovare dentro di sé le ragioni per non mettere troppo presto la parola fine al desiderio buono di una vita distrutta dal gesto di morte di chi un tempo desideravamo amare per la vita. Ma sta a noi, ad ognuno di noi, saperci compagni di una solitudine che nessun uomo, nessuna donna, nessun sacramento nuziale, può estirpare: una solitudine che si riaffaccia dentro ogni fallimento e che deve insegnarci il senso del confine, la prudenza delle azioni, il valore delle parole. Perché quel che è certo è che ci ameremo, ci feriremo, ci lasceremo, ma la memoria della promessa del primo giorno ci farà tornare a cercarci di nuovo, pronti a riconsegnarci ad un Mistero che non sei tu, che non sono io. E che ci rende capaci di mendicare e imparare l’arte del perdono, unica possibilità di successo in una storia che – dentro tutti i fallimenti possibili – non vuole cedere all’orrore di spegnere per sempre ogni speranza, ogni luce. Non vuole cedere all’altrimenti inevitabile incubo di lasciare avanzare il male, il peccato, la notte. E tutti i suoi mostri.