Roma. Siamo negli anni tra i più intensi del terrorismo italiano. Alfonso Le Rose, noto magistrato (immaginario) dell’epoca subisce un attentato sotto casa. Colpito alla schiena riesce a salvarsi, ma l’evento lascia una traccia indelebile nella memoria del figlio Valerio, fragile e impreparato alla (seppur scampata) scomparsa del padre. I mesi successivi porteranno a galla le ferite di un episodio drammatico, ispirato alla cronaca politica italiana.



Claudio Noce (regista apprezzato tra le altre cose per la realizzazione del terzo capitolo della serie Sky “1994“) è figlio del Vicequestore Alfonso, vittima di un attentato nel 1976. Un evento che ha voluto “riscrivere” e rielaborare con questo film che sembra essere più un’urgenza personale dell’autore piuttosto che per il pubblico.



Presentato a Venezia 2020 e accolto piuttosto freddamente dalla critica, Padrenostro infatti è un film più che imperfetto, privo di un vero e proprio baricentro, di una narrazione fluente e di un’estetica reale al servizio del film. Il punto di vista si abbassa all’altezza di Valerio, angelica creatura che sembra subire gli eventi, affiancato da una madre premurosa, un padre ingombrante e una sorella troppo piccola per essere una spalla. Quando la realtà diventa difficile da sostenere, Valerio si rifugia nel suo mondo immaginario, fatto di fantasmi ma anche di buoni amici che non esistono, che raccolgono tutta l’ansia di un’infanzia ferita. Un’ansia che reprime, che fatica a esprimere e trasforma nell’immagine quasi innaturale di un bambino modello, nonostante tutto. 



Noce si racconta, e ci fa capire, tutto quello che succede in quell’angolo sperduto dell’emotività, guidato da ricordi ancora forti nella sua mente. Ma il suo racconto non decolla e rimane impantanato in una narrazione onirica che abbatte le emozioni e puzza di artefatto. Le scene al rallenti si susseguono in un tempo rarefatto che sottolinea gli eventi e traduce involontariamente il crudo realismo della sua giovane vita in un mondo artefatto da clip pubblicitario. Le musiche, che si appoggiano a queste immagini, suonano spesso eccessive, con spunti drammatici e picchi emotivi che le immagini non raccontano.

Quando il punto di vista si sposta sugli altri personaggi, il risultato un po’ innaturale non cambia. La scelta visiva e stilistica spezza il ritmo del film e penalizza lo scorrere della storia che viaggia da sé, a grande distanza dai cuori degli spettatori svogliati. Un’empatia che non si sprigiona, ma che forse il regista nemmeno cerca. Impegnato a rielaborare i suoi fantasmi senza offrire a noi la chiave di lettura della sua nascita e rinascita.

Quando appare Christian, l’amico non più immaginario, Valerio sembra prendere ferie dal suo ruolo di bravo bambino, per esplorare, insieme a un moderno Lucignolo, i sentieri di una libertà sconosciuta. Con Christian il racconto si complica ed emerge la debolezza e la difficoltà delle relazioni che Noce sembra accennare con troppa fretta e schematicità.

Nulla da dire su Favino, che centra senza alcuna ombra di dubbio, il suo vistoso personaggio. È proprio lui che aleggia in ogni scena, per la sua presenza, la sua assenza, il suo dolore, il suo calore, il suo sorriso, la sua complicità, la sua inflessibilità, la sua nobile missione. Un monumento che impreziosisce ogni scena con quintali di credibilità. Ma questo non basta a offrire un’esperienza cinematografica memorabile, né significativa. 

Padrenostro è la difficile storia privata, intima, disperata in silenzio, di un uomo che finalmente l’ha superata, raccontandola a noi. Ma forse doveva semplicemente raccontarla a se stesso oppure provare a trasformarla in un’eco più umana o universale.