C’è stato un periodo nella storia del Medio Oriente, che oggi sembra preistoria, nel quale i governanti e i diplomatici degli Stati Uniti erano giudicati, nel mondo arabo, più raffinati e “politici” dei loro colleghi europei “capitalisti” e “guerrafondai” che vivevano a Londra e Parigi.

L’apice di questo giudizio fu nel 1956, durante la Crisi di Suez. Il presidente egiziano Gamal Nasser aveva proclamato la nazionalizzazione del Canale di Suez ed i paracadutisti francesi ed inglesi venivano inviati a ristabilire l’ordine coloniale, infranto dalle aspirazioni nazionali e panarabe di Nasser. In quel frangente dalla Casa Bianca giunse, come uno schiaffo alle potenze coloniali dell’epoca, l’invito perentorio a ritirare tutti i soldati. Anche alle truppe israeliane, che avevano invaso il Sinai appoggiando l’attacco anglo-francese, fu chiesto di ritirarsi. Alle Nazioni Unite, Stati Uniti e Unione Sovietica si trovarono d’accordo: la Crisi di Suez, lo scontro tra Egitto, Gran Bretagna e Francia andava superato con armi politiche e si doveva, comunque, tenere conto delle nuove aspirazioni nazionali al controllo delle proprie fonti di ricchezza.



Quegli avvenimenti apparivano come il voltare pagina della presenza statunitense in Medio Oriente. Solo pochi anni prima, nel 1953, Gran Bretagna e Stati Uniti avevano promosso il colpo di Stato che aveva rovesciato in Iran il governo di Mohammad Mossadeq, che aveva nazionalizzato l’industria petrolifera iraniana.

Tra questi due punti estremi ed opposti si colloca oggi la Conferenza di Manama, capitale del piccolo Stato-isola del Bahrain nel Golfo Persico. Uno degli Stati arabi, attraversato dal vento delle rivoluzioni, dove la repressione è stata violenta e anche “importata”. I blindati ed i soldati del confinante Regno dell’Arabia Saudita entrarono nel marzo del 2011 a riportare l’ordine, puntellando il traballante sovrano locale. Repressione anche mediatica, perché le richieste di libertà politica avanzate dagli oppositori (moltissimi giovani, donne, professionisti e laici) sono state ricondotte e “liquidate” dal regime come aspirazioni insurrezionali della comunità sciita, influenzata dal vicino Iran.



Ebbene, a Manama per due giorni una comunità di uomini di affari (americani e arabi in maggioranza) è stata ora invitata dal genero del presidente americano, il giovane Jared Kushner, fin qui conosciuto in Israele e Palestina come grande finanziatore delle nuove colonie israeliane ed ebraiche all’interno dei territori palestinesi occupati.

L’approccio del Piano, che Kushner presenterà a questa “comunità” e che  dovrebbe favorire la soluzione del conflitto tra israeliani e palestinesi, è “economico”, perché “meno controverso” di quello politico (parole di Kushner).

Per questo nel Piano non si trova nulla che faccia riferimento all’indipendenza di uno Stato palestinese, allo status di Gerusalemme, al destino dei rifugiati palestinesi, alla fine dell’occupazione militare israeliana intorno a Gaza e all’interno della Cisgiordania. Di questo, semplicemente, non si discuterà.



Viceversa, c’è un fiorire di grandi cifre e molti progetti: 50 miliardi di dollari di investimenti (finanziati e gestiti da banche multinazionali) a favore dei palestinesi e di alcuni paesi arabi, Egitto, Giordania e Libano. In dieci anni, si badi bene. 25 miliardi ai paesi arabi e 25 ai palestinesi. Tra i progetti c’è qualche margherita da segnalare: un miliardo per favorire il turismo dalla parte palestinese ed altri 5 per costruire un corridoio che unisca, al solo fine del trasporto delle merci e (forse) delle persone, Gaza alla Cisgiordania. 

Se quest’ultima margherita dovesse realmente spuntare, l’estrema destra israeliana dovrebbe forse rinunciare al taglio netto e definitivo tra Gaza e Cisgiordania, in questi anni perseguito nei fatti.

Ma, c’è tutto il resto, e non è poco, al quale i palestinesi dovrebbero rinunciare, o meglio accantonare e posticipare ad un futuro sempre più incerto e lontano. Insomma, affari in cambio di diritti . Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, ha detto che il Piano Kushner porta con sé “il peso insopportabile di concessioni definitive” ed è quindi inaccettabile.

Un giudizio condiviso anche dai leader palestinesi di Hamas. “La questione del popolo palestinese è nazionalista – dice Ismail Rudwan -, è la questione di un popolo che è in cerca di libertà dall’occupazione”.

Anche questi giudizi e questi rifiuti sono stati affrontati da Kushner, in modo semplice: i dirigenti palestinesi, a Manama, non sono stati invitati. Nessuno tra i businessman presenti sentirà le loro argomentazioni, e l’invito e l’impossibilità a non scindere le questioni politiche da quelle economiche.

Proprio quello che il presidente americano Eisenhower, nel 1956, durante la Crisi di Suez aveva compreso.