Sono i minori le vittime principali degli attuali scenari di guerra che Papa Francesco ha icasticamente definito come la terza guerra mondiale a pezzi. Sono le vittime principali non solo perché pagano con la vita colpe mai commesse, ma perché anche quando sopravvivono portano tracce così profonde nella loro personalità da diventare facilmente strumenti di chi queste guerre intende perpetrarle nel tempo.



A meno che, a tutela dei loro diritti e con tutto lo spirito di riparazione che il loro mancato rispetto impone a chi li ha traditi, non si investano risorse adeguate, restituendo loro quel futuro di speranza e di solidarietà che gli è stato violentemente strappato.

Ed è questa la sfida principale che tocca a tutti noi, figli ed eredi di una cultura dalle profonde radici giudeo-cristiane; figlia del diritto e della filosofia della pace. Mancare questo obiettivo significa condannare l’Occidente ad uno stato di fragilità permanente, mettendo in serio pericolo la sua sicurezza e la sua pace.



I fatti

La guerra dichiarata da Hamas ad Israele sta colpendo soprattutto i bambini: in un fronte e nell’altro. Ancora una volta si ripete una vera e propria strage degli innocenti. Più di mille bambini uccisi in 11 giorni su entrambi i fronti e tra le duecento persone rapite e portate a Gaza come ostaggi ci sono anche minori. I bambini e le bambine costituiscono almeno un terzo del totale delle vittime in questa drammatica situazione, mentre la situazione umanitaria continua a peggiorare. L’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) ha denunciato che l’acqua pulita scarseggia e senza aiuti e beni di prima necessità i bambini piccoli inizieranno presto a morire di grave disidratazione. La vita di migliaia di bambini è in pericolo.



Ma oltre al pericolo oggettivo per la vita di tutti questi bambini ci sono anche i danni che a medio e lungo termine possono incidere sul loro equilibrio umano. Assistere agli orrori e alla violenza del conflitto può modificare profondamente il paradigma che permette all’infanzia di proiettarsi verso un futuro in cui immaginare una vita di pace e di coesione sociale. Lo scarso accesso ai servizi di base e agli aiuti umanitari distruggono il senso di fiducia che dovrebbe favorire lo sviluppo di ogni bambino, a cominciare dalla possibilità di frequentare la scuola, di giocare liberamente, di avere a disposizione strutture socio-sanitarie adeguate. Vengono meno le cure necessarie, il cibo, la sicurezza e la relativa protezione. Ci sono violenze, abusi e sfruttamento, perché inevitabilmente aumentano i rischi di essere vittima di violenze di ogni tipo, compreso lo sfruttamento legato al lavoro minorile e al rischio di essere arruolati in gruppi armati. La paura del futuro, l’incertezza del domani diventano fonte di stress e ansia e prende forma in loro un pensiero negativo ricorrente, in cui temono che “la guerra potrebbe non finire”, “posso perdere i miei genitori”, “potrebbe non esserci più cibo”.

La sovraesposizione allo stress ha necessariamente conseguenze negative sulla loro salute mentale e può attivare un circuito di violenza, per cui da vittime diventano potenziali aggressori. Lo sviluppo sociale ed emotivo di un bambino è sempre legato a una presenza costante, attenta, affettuosa degli adulti. In questi casi i bambini, oltre al trauma della separazione dai genitori, possono sperimentare una pressione all’autodifesa e all’autonomia, in cui i confini della solidarietà si frammentano, spesso sostituiti dall’istinto di sopravvivenza, che rende tutto lecito.

Così si ritrovano soli ed esposti ancor di più ai rischi di sfruttamento, rapimento e arruolamento nei corpi armati. Tutto ciò crea uno stato di disagio così profondo da farli sentire in stato di guerra permanente; le loro ferite sono difficilmente rimarginabili nel tempo e la loro proiezione nel futuro è nello stesso tempo vulnerabile e aggressiva. Per cui davvero la guerra sembra generare solo altre guerre, spesso in modo più subdolo e pericoloso.

Il tradimento delle convenzioni internazionali

Ad oggi è stato calcolato che sono circa 24 milioni i bambini che vivono in zone di guerra e dichiarano di soffrire di gravi disagi psicologici, perché la guerra provoca anche effetti devastanti sulla loro salute mentale, con un effetto di contagio che ha conseguenze disastrose anche al di là dello scenario di guerra iniziale.

A fronte di tutte le guerre attualmente in corso, anche a partire dal rapporto ONU di denuncia sugli abusi ai minori in Afghanistan, vale la pena ricordare la Convenzione sui diritti dell’infanzia che tutela i diritti dei bambini in caso di conflitto armato. La Convenzione sui diritti dell’infanzia, approvata il 20 novembre 1989, ratificata da 193 Stati, rappresenta lo strumento normativo internazionale più importante e completo per la promozione e tutela dei diritti dell’infanzia e costituisce uno strumento giuridico vincolante per gli Stati che la riconoscono.

L’articolo 29 afferma che: “Gli Stati parti convengono che l’educazione del fanciullo deve avere come finalità: a) favorire lo sviluppo della personalità del fanciullo nonché lo sviluppo delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutta la loro potenzialità; b)  sviluppare nel fanciullo il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei principi consacrati nella Carta delle Nazioni Unite; c) sviluppare nel fanciullo il rispetto dei suoi genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali in cui il minore vive, del paese di cui può essere originario e delle civiltà diverse dalla sua; d) preparare il fanciullo ad assumere la responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace e di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi etnici, nazionali e religiosi e delle persone di origine autoctona; e) sviluppare nel fanciullo il rispetto dell’ambiente naturale”.

Se questo articolo appare più come una lista di doveri che di diritti per i minori e per gli adulti che hanno una concreta responsabilità di formare i minori, l’articolo 37 afferma in modo inequivocabile: “Nessun fanciullo sia sottoposto a tortura o a pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti…” come invece spesso accade in guerra con una flagrante contraddizione con i Diritti umani dei minori. E l’articolo successivo, il n. 38, a sua volta sottolinea le responsabilità proprie degli Stati: “1. Gli stati si impegnano a rispettare e far rispettare le regole del diritto umanitario internazionale in caso di conflitto armato, la cui protezione si estende ai fanciulli. 2. Gli Stati parti adottano ogni misura possibile a livello pratico per vigilare che le persone che non hanno raggiunto l’età di 15 anni non partecipino direttamente alle ostilità…”. Successivamente l’età di 15 anni è stata innalzata a 18 anni con il Protocollo opzionale della Convenzione internazionale sui diritti dell’Infanzia dell’ONU il 25 maggio 2000. Protocollo in cui si condanna anche il reclutamento e l’addestramento dei minori.

Che siano intrappolati nei combattimenti, che si spostino come migranti, rifugiati o sfollati interni, che prendano parte alle ostilità o siano detenuti per legami veri o presunti con gruppi armati, questi bambini sono, prima di tutto, vittime di circostanze che sfuggono al loro controllo. In realtà abbiamo un’infanzia sotto attacco in moltissime parti del mondo e le notizia provenienti dal conflitto armato tra Russia ed Ucraina ne è una ulteriore conferma. La Russia è accusata di aver deportato 6mila minori ucraini in campi di rieducazione, dove sono stati sottoposti a percorsi di educazione forzati.

Conclusione

Tutelare i diritti dell’infanzia, da qualunque parte del conflitto stiano i minori, è il più grosso investimento per la pace che la nostra stessa cultura e tradizione ci impone. Con quello sguardo più ampio e profondo che parte dallo scenario di guerra ma si spinge ben più in là, abbracciandone le conseguenze devastanti. Non basta concentrarsi sugli effetti immediati della violenza esplosiva sui minori, ma anche su quelli di lungo periodo e, quindi, su tutte le conseguenze che avranno a distanza di anni.

La maggior parte delle vittime minorenni non è causata da un’esposizione militare o terroristica diretta. Si tratta di vittime del danneggiamento di riserve alimentari, fonti d’acqua, luoghi di riparo e di assistenza sanitaria, danni che spesso non vengono adeguatamente riconosciuti e valutati eppure sono quelli che lasciano tracce molto più a lungo.

Paradossalmente sono i minori che sopravvivono alla guerra che faranno la differenza, diventando giudici vendicatori o ambasciatori di pace. Si tratta di danni a cui non sempre si pone riparo nei modi dovuti, sono spesso sotto-finanziati, anche perché poco riconosciuti come tali, nelle loro cause e nelle conseguenze a medio-lungo termine.

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