L’azione israeliana su Gaza continua. E se comportasse una nuova Nakba, un esodo dei palestinesi dalla Striscia, potrebbe avere conseguenze catastrofiche: spingerebbe due milioni di persone nel Sinai, dove già agiscono alcuni gruppi come l’Isis, creando un grosso problema di accoglienza all’Egitto, e potrebbe causare una situazione simile anche in Giordania, soprattutto se al fronte di Gaza dovesse aggiungersi anche quello della Cisgiordania. Una situazione esplosiva nella quale i governi dell’area potrebbero anche far intervenire i loro eserciti, per rispondere soprattutto alle proteste di un’opinione pubblica che in quelle nazioni è pesantemente anti-israeliana e sensibile alla causa palestinese.



Le conseguenze, spiega Giuseppe Dentice, responsabile del desk Medio Oriente e Nord Africa per il Cesi, Centro studi internazionale, potrebbero essere anche altre: una rinascita del terrorismo e una ripresa delle milizie islamiche che operano in diversi punti del Medio Oriente. Che in questo contesto convincerebbero più facilmente a combattere chi, vista la piega presa dagli eventi, si sentirebbe in dovere di dare il suo contributo per aiutare i palestinesi.



È Uno degli scenari più pericolosi, comunque, è quello che si aprirebbe se anche la Cisgiordania dovesse divenire teatro di guerra: allora diventerebbero zone calde, più di quanto non lo siano già ora, anche il Nord di Israele, il Libano e la Siria.

L’invasione di terra potrebbe portare all’esodo dei palestinesi da Gaza: se questo scenario dovesse verificarsi come potrebbero reagire i Paesi del Medio Oriente?

Posto che qualsiasi ragionamento in questo momento è una speculazione, perché la situazione potrebbe cambiare velocemente in base al tipo di operazione militare che verrà messa in atto da Israele e allo sviluppo che potrà avere, i rischi maggiori sono dal punto di vista politico, diplomatico e umanitario. Dal punto di vista umanitario è evidente che Israele stia spingendo gli abitanti della Striscia ad ammassarsi verso Sud, ma non è improbabile che ci sia un disegno per spingerli verso il Sinai, in Egitto, Paese che vive una crisi domestica pericolosa dovuta a una situazione economica senza precedenti e a una difficoltà a gestire il territorio, vista la presenza da ormai dieci anni, proprio nel Sinai, di terroristi che fanno capo all’Isis e ad altri gruppi simili. Per questi motivi l’Egitto non può subire una bomba demografica e umanitaria come questa.



Anche la Giordania è preoccupata?

Amman ha detto in più occasioni che ogni cambiamento delle condizioni di vita dei palestinesi, anche quelli della Cisgiordania che potrebbero venire spinti verso la Giordania stessa, sarebbe considerato una sorta di dichiarazione di guerra. Se le condizioni sono già queste con due dei Paesi più prossimi a Israele, con i quali ha firmato dei trattati di pace, si capisce quanto sia pericolosa la situazione e quale sia il rischio che il conflitto deflagri in qualcosa di molto peggiore, di assolutamente imprevedibile per le sue ripercussioni.

Ma Egitto e Giordania concretamente come potrebbero reagire?

Molto male, non dico con una operazione militare, però non possono far finta di niente. Il problema è che il peso maggiore della situazione è tutto sui Paesi arabi che, pur volendo mantenere rapporti proficui con Israele a livello di leadership, devono rispondere a società che disconoscono questo atteggiamento e anzi sono assolutamente contrarie all’avvicinamento a Israele, usando la stessa causa palestinese come fattore di tensione. Le leadership arabe, anche l’Arabia Saudita, non possono dimenticare di considerare questo aspetto, ne va della stabilità nazionale di questi Paesi. Una situazione che fa comodo all’Iran che la sfrutta attraverso il ruolo dei suoi proxy, pensiamo a Hezbollah in Libano e anche ad Hamas, anche se ha un ruolo particolare e sarebbe meglio riferirsi al Jihad islamico palestinese, il cui legame con l’Iran, come finanziamenti e supporto, è molto più strutturale. Pensiamo a quello che sta succedendo in Iraq e in Siria, dove milizie sciite hanno preso ad attaccare le basi americane nella regione. È un problema che rischia di allargarsi sempre di più e di coinvolgere non solo il Medio Oriente, ma il mondo intero.

Le reazioni dei Paesi dell’area a un esodo dei palestinesi fino a che punto si spingerebbero: sarebbero politiche o militari?

Sarebbero reazioni politiche ma anche militari. Nessuno, però, oggi ha interesse a prendere le armi contro Israele, perché siamo in una situazione che rischia di uscire dal controllo di tutti. Per ora si rimane al livello di uno scontro verbale molto alto. Non possiamo escludere, tuttavia, forme di coinvolgimento militare dei Paesi dell’area: non è auspicabile, ma non è neanche improbabile. Anche se è impossibile fare previsioni nette.

L’Egitto, sulle cui spalle ricadrebbe il problema dei profughi palestinesi, è un Paese chiave dell’area. Se la situazione con Israele precipitasse potrebbe comportare pure un coinvolgimento delle numerose milizie che operano nella zona?

Certe deflagrazioni di violenza possono portare ad altre minacce, a partire da una risorgenza del terrorismo: è un momento che deve essere gestito con una certa oculatezza. Le milizie islamiche presenti nella regione, di fronte a un aggravamento della situazione, potrebbero più facilmente arruolare persone che vogliono andare a combattere e quindi accentuare il loro peso e la loro pericolosità. Uno scenario molto rischioso perché, se un esercito è qualcosa di convenzionale, quindi conosciuto, una milizia o un attore non statuale non è detto che lo sia completamente.

Gli Usa hanno molte basi militari in Medio Oriente, diverse intorno all’Iran: quanto può valere la deterrenza americana per proteggere Israele e quali sono le possibilità di intervento di Teheran? Il fronte della guerra, dopo Gaza, può spostarsi anche alla Cisgiordania?

Se esplode la Cisgiordania dobbiamo temere veramente il peggio: il potenziale di instabilità sarebbe molto più alto della stessa Gaza. E con sé porterebbe un carico di tensioni che si allargherebbe un po’ ovunque, a cominciare dal Nord di Israele per arrivare fino al Libano e alla stessa Siria, fronti che vedono coinvolti Israele e i suoi avversari, Hezbollah e le milizie del mondo vicino all’Iran. Gli Usa sono presenti nell’area e hanno basi un po’ dappertutto, mentre l’Iran cerca di far valere le sue specificità anche in funzione anti-Stati Uniti e anti-Israele, utilizzando i suoi proxy, gli attori regionali, funzionali a creare deterrenza nei confronti di americani e israeliani. Come gli Stati Uniti possono esercitare questa deterrenza nei confronti dell’Iran, Teheran la può esercitare nei confronti degli Usa. Sono tutti attori che potrebbero confrontarsi e avere un ruolo nell’escalation del conflitto.

Ma ai Paesi arabi interessa veramente la questione palestinese?

Alle popolazioni arabe interessa il contesto israelo-palestinese. E anche tanto. Le leadership arabe, più che l’Iran, sebbene siano meno interessate che in passato alla questione palestinese in senso stretto, devono far fronte a queste situazioni perché costrette: devono tenere conto che le loro popolazioni sono fortemente anti-israeliane. Le opinioni pubbliche, benché godano di pochi diritti in generale, sono fondamentali per dare continuità ai governi della regione. C’è, insomma, un uso strumentale della questione che, tuttavia, è motivato da ragioni politiche.

(Paolo Rossetti)

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