È molto frequente in Italia, quando si presenta una commedia, una qualunque commedia, fare riferimento alla tradizione della commedia all’italiana, con le sue varianti. Gli autori di dette commedie dovrebbero dare un’occhiata a Pallottole in libertà, film francese di Pierre Salvadori, che sembra un esempio per chiunque voglia realizzare una commedia alternativa, si potrebbe dire.



La protagonista, Adèle Haenel, è la moglie e collega di un poliziotto eroico morto in servizio di cui è talmente fiera da raccontarne le impavide gesta al figlio, come storia della buonanotte. Quando scopre la verità sul suo conto, la sua corruzione e l’aver mandato in galera un innocente, comincerà a seguire quest’ultimo appena uscito di prigione per cercare di dargli una seconda chance. Scritto dal regista con Benjamin Charbit e Benoit Graffin, Pallottole in libertà gioca con le icone e le strutture della commedia e del polar, il poliziesco francese, per costruire un racconto sul rapporto tra identità e narrazione.



Fin dal fantastico incipit che parodizza il poliziesco – che insieme alla commedia è l’altro grande macro-genere del cinema francese -, il film di Salvadori è una riflessione su cosa ci raccontiamo, di noi e degli altri, per poter vivere meglio, per poter stare in pace con noi stessi, su come ci immaginiamo il nostro futuro e su come agiamo per renderlo possibile: fa da esempio la bellissima sequenza del ritorno a casa dal carcere di Antoine, con la moglie (Audrey Tatou), che gli fa ripetere l’ingresso finché non aderisca completamente alla sua fantasia. Anche il resto dei personaggi deve fare i conti con lo scarto tra idealizzazione e realtà e il modo in cui lo risolvono crea il loro spessore, permette al pubblico di affezionarvici.



Pallottole in libertà ha la rocambolesca apparenza di una commedia folle, surreale, bizzarra, con echi di Hellzapoppin’ (l’assassino che vorrebbe confessare ma non ci riesce), ma dietro c’è la densità morale del miglior poliziesco d’Oltralpe, uno sfondo doloroso in cui la polizia fa una figuraccia e si delineano gli effetti nocivi del carcere sulle persone, dialoghi bellissimi. È un film complesso che scorre via senza intoppi: “È tutto finto, ma tanto bello” si dice. Non è il concetto stesso alla base del cinema?