Ellen Martin è un’anziana signora americana, felicemente sposata. Quella che sembrava una piacevole gita al lago con il marito si trasforma in una tragedia improvvisa, la morte dell’uomo, da cui si dipana una storia di truffe e assicurazioni tarocche. Un sistema di scatole cinesi finanziarie che nascondeva miliardi di dollari tramite società offshore controllate dalla sapiente e truffaldina regia dello studio Mossack Fonseca, con sede in Centro America.



Uno scandalo conosciuto con il nome di Panama Papers, che ha rivelato l’esistenza di dossier confidenziali, con truffati e truffatori, al cui interno figuravano importanti esponenti di governo, politici e funzionari corrotti. Una storia vera, quest’ultima, raccontata nel libro “Secrecy world: Inside the Panama Papers Investigation of illicit Money Networks and the global Elite”, scritto dal giornalista Jake Bernstein.



Panama Papers: la grande truffa. O meglio, una delle tante truffe che scandiscono il ritmo dell’economia e della finanza dei nostri giorni. Uno scandalo scoppiato nel 2016, variabilmente appassionante. Per alcuni la scoperta dell’acqua calda, per altri una vergognosa storia di farabutti, per altri ancora una piccola grande tragedia dai risvolti personali. Una materia complessa che si riassume nella storia di “una grande ruberia”, un magna magna diffuso (diremmo all’italiana), dove a perderci sono sempre e solamente i soliti.

Come Ellen Martin, interpretata da un’energica Meryl Streep, sempre in forma smagliante. Ci restituisce ingenuità, incredulità, ribellione, dal basso. Ribellione a un sistema perverso e spietato che Soderbergh ci racconta con freddo cinismo. A spiegarci i fatti per conto del regista, una coppia straordinaria di interpreti, narratori kitsch e al tempo stesso goffi protagonisti della vicenda, Gary Oldman e Antonio Banderas. Esilaranti, complementari, bizzarri, guardano in macchina parlando con gli spettatori, per tradurre alla maniera de La Grande Scommessa, la materia complessa dei fatti.



Panama Papers seduce per le sue forme sperimentali, per un ritmo spezzato e spiazzante, un po’ copiato (con illustri e premiati predecessori) ma ancora a suo modo sorprendente. Scorre rapidamente, tra un capitolo e l’altro, tra una vicenda e l’altra, tra un furto e l’altro. Un viaggio esotico nella delinquenza internazionale, privo di violenza ma ricco di sorpresa, genio visionario e ironia. Un divertissement che procede per accumulo, cercando di fare luce, senza grande successo, su qualcosa di complesso e certamente poco cinematografico. Ma il tutto, e il suo contrario, del film, il suo flusso continuo e un po’ divagante, qualcosa ci lascia. Come, ad esempio, l’idea che viviamo in un mondo di squali, che non c’è mai da star tranquilli, che chi più risparmia più spende e bla bla bla.

Non molto, davvero, a livello di contenuti. Ma ne apprezziamo le forme, che sono il film. E apprezziamo l’adorabile narcisismo registico che produce semplicemente un’opera imperfetta. Ma pur sempre popolata di grandi e piccoli mostri del cinema.