Uno dei temi più discussi nel corso della pandemia da Coronavirus è sicuramente quello della scuola. Da fine febbraio, in certi casi qualche settimana dopo, tutta Italia ha conosciuto la didattica a distanza: alunni costretti a collegarsi al computer e utilizzare programmi di conversazioni online per seguire le lezioni, sostenere verifiche e interrogazioni, presumibilmente – e fortunatamente – non la maturità che sarà comunque in presenza. Sul tema della scuola c’è grande confusione: non è ancora chiaro se a settembre si potrà tornare nelle aule, la ministra Lucia Azzolina ha ventilato l’ipotesi dei plexiglass sui banchi per proteggere gli alunni, eccetera eccetera. Di questo parla Paola Mastrocola su La Stampa: scrittrice, ma anche insegnante fino a cinque anni fa, ha ben presente cosa significhi insegnare ai ragazzi e oggi nel suo intervento apre al timore che il Coronavirus diventi il pretesto per aprire definitivamente alla digitalizzazione della scuola. “Il Coronavirus è arrivato là dove nemmeno i più agguerriti pedagogisti erano arrivati”.
Facendo un ideale riassunto, la Mastrocola sostiene che adesso si stanno alzando proteste e lamenti per la didattica a distanza prolungata, è sorto un moto di indignazione e i cori vertono sulla necessità di tornare nelle classi; “abbiamo passato gli ultimi vent’anni a demolire la lezione in classe” dice lei, che fa notare l’ironia e il paradosso della cosa. Tuttavia, la battaglia è giusta perché la lezione in classe “è il cuore dell’insegnamento”. Ora, diciamo subito come intermezzo (nostro) che il tema si può legare a quello dello smart working: tuttavia, se in questo caso il Coronavirus potrebbe davvero essere stato occasione per ampliare e implementare una pratica che in Italia non è ancora del tutto diffusa (e che in determinati contesti aiuterebbe), per la scuola la stessa dinamica porta ad un giudizio opposto. Gli alunni devono stare nelle classi, ed è quello che dice la Mastrocola; che, per spiegarsi, porta l’esempio della spiegazione di una poesia di Giovanni Pascoli. Dice che un primo livello di insegnamento è culturale (e ovviamente imprescindibile), ma poi ce n’è un altro più sottile.
PAOLA MASTROCOLA E LA SCUOLA DAL VIVO
Ovvero? La reazione del professore ad un determinato verso: un viso che si arrossa, uno scoppio di risa, una commozione: questo è quello che davvero potrebbe spiegare ai ragazzi cosa sia la poesia del Pascoli. Non solo, la scrittrice continua dicendo che nel corso della spiegazione possono nascere delle digressioni che vanno a toccare attualità, politica, economia, amore e morte. “E magari e proprio lì, in tutto quell’altro che non stava nei programmi, che l’allievo troverà le cose più preziose per sé”. La lezione dal vivo è spazio, sostiene con forza la Mastrocola: è teatro, è improvvisazione, è avventura. Abolire la lezione “frontale” (termine che non le piace, ma che utilizza riprendendone la definizione da parte dei detrattori) sarebbe come abolire la libertà, rinunciar a quello che la vita mette davanti. “Reprimere l’immaginazione, levare fiducia al potere misterioso della parola. Tagliare il filo a un aquilone”. Ecco allora qual è stata la lezione del Coronavirus: a prescindere da quello che succederà, ha fatto capire che la scuola va ripensata da zero considerando gli sconvolgimenti economici e sociali, ma che in ogni caso non può essere pensata a distanza o con il plexiglass tra i banchi.
Paola Mastrocola conclude dicendo che il Coronavirus ci ha fatto capire che la scuola è una necessità educativa e sociale, prima ancora che culturale. “Dove lasceremo i nostri figli, e a chi? Io aggiungerei una domanda: come faremo a non perdere la ricchezza ineguagliabile di una lezione dal vivo?”. La pandemia è un invito a rimodellarci, ovvero trovare altri modi di vivere: anche così, soprattutto così deve essere inteso. La scrittrice allora conclude dicendo che se non raccoglieremo questo invito, non riuscendo a farci venire idee scatenando l’immaginazione e inventare il mondo daccapo, “se ci intestardiremo a far continuare le cose il più possibile uguali identiche com’erano”, allora si sarà persa una partita decisiva. L’occasione da sfruttare insomma c’è: come sempre, si tratta di muoversi in prima persona e, nel nostro quotidiano e nel nostro piccolo, provare a capire da dove ripartire.