L’ultima “intervista” di Paolo Borsellino la mattina della strage di via D’Amelio
Sulle tristi vicende che hanno portato alla morte del giudice Paolo Borsellino si è a lungo parlato negli ultimi 30 anni, ma ci sono ancora dei dettagli sui quali ci si è soffermati poco e nulla. Uno di questi è una lettera che scrisse proprio quella fatidica mattina del 19 luglio, per giustificarsi e scusarsi di essere mancato ad un’assemblea del precedente 24 gennaio al Liceo Scientifico Alvise Cornaro di Padova. Rispose ad una studentessa, che espresse il “disappunto degli studenti” del liceo.
Finora non si è mai parlato di quella lettera (se non in una singola occasione nel 1993, ma che non ottenne una particolare risonanza), ma l’autrice, Sara Caon, ha rotto il silenzio solamente ora, accettando di parlarne sulle pagine della rivista Oggi. Oltre ad esprimere il disappunto, l’allora 17enne allegò alla lettera una lista di 9 domande. La lettera, datata 3 febbraio 1992, ricevette una risposta solamente il 19 luglio dello stesso anno, dopo che la ragazza aveva perso le speranze in seguito “all’omicidio di Salvo Lima e ancor più dopo la morte di Giovanni Falcone”. Ma, evidentemente, il giudice si sentiva in colpa a tal punto da trovare comunque il momento di rispondere, nonostante in quel periodo il rischio che correva fosse decisamente alto.
Paolo Borsellino: “combatto la mafia perché amo la mia terra”
“Mi dichiaro dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli studenti del suo liceo”, inizia Paolo Borsellino nella sua lettera indirizza alla studentessa del liceo padovano, pubblicata integralmente sulle pagine di Oggi, scambiandola erroneamente per una professoressa. In merito alla sua assenza, il giudice dice di ricordarsi bene di essere stato oberato dal lavoro in quel periodo, ma anche di aver sentito parlare “della vostra iniziativa” dal dottor “Vento del Pungolo di Trapani”, diede la disponibilità “in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi affliggevano”. “Mi preannunciò che sarei stato contattato da un preside (..), e da allora non ho più sentito nessuno”, sottolinea Borsellino, affibbiando la colpa della sua assenza ad un semplice fraintendimento.
“Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perché la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata”, continua Borsellino nella sua lettera, “ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli”. Tuttavia, “è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande”. Però dalla lettera pubblicata integralmente per la prima volta su Oggi, emerge come Borsellino sia riuscito a rispondere solamente alle prime 3 delle 9 domande allegate alla lettera della studentessa, anche se non è chiaro se sia stato fatto per assenza di tempo, oppure perché contenevano informazioni riservate. Le ultime 6 domande rimarranno per sempre senza risposta, ma il valore delle prime 3 è comunque inestimabile.
1) “Come e perché è diventato giudice?”
La prima domanda posta al giudice Paolo Borsellino riguarda proprio la sua carriera. “Sono diventato giudice perché nutrivo grandissima passione per il diritto civile”, racconta tra le pagine pubblicate su Oggi. “Fui fortunato”, confessa, “e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili”. “Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile (NDR: omicidio ad opera di Cosa Nostra)”, e nell’ufficio in cui lavorava Borsellino approdò “il mio amico d’infanzia Giovanni Falcone e sin da allora capii che il mio lavoro doveva essere un altro”.
Per il giudice era importante dare un senso al fatto che avesse scelto di rimanere in Sicilia, “i nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi causalmente”, racconta, “ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi”. Da allora non lasciò più quel lavoro, occupandosi “pressoché esclusivamente di criminalità mafiosa”, confessandosi anche “ottimista perché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarantanni”.
2) “Cosa sono la DIA e la DNA?”
La seconda domanda riguardava, invece, acronimi che sono in parte ancora utilizzati, ovvero DIA e DNA. “La DIA è un organismo investigativo” che puntava a coordinare “Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza”, spiega Paolo Borsellino, “che fino ad ora (..) hanno agito senza assicurare un reciproco scambio di informazioni”. In merito alla DNA, invece, spiega che si tratta di “una nuova struttura giuridica che tende ad assicurare soprattutto una circolazione delle informazioni tra i vari organi del Pubblico Ministero” sparsi sulle varie circoscrizioni territoriali.
“Questi organi hanno agito”, spiega alla ragazza, “in assoluta indipendenza ed autonomia l’uno dell’altro (..) ma anche in condizioni di piena separazione”. La ragione per cui era necessario un collegamento tra gli organi giuridici lo spiega lo stesso Borsellino nella sua lettera, imputando agli organi la “colpa” di ignorare “nella maggior parte dei casi il lavoro e le risultanze investigative e processuali degli altri organi”. Era dunque necessario collegare gli organi giuridici, al fine di garantire un intervento tempestivo del personale giudiziario nel caso “se ne ravvisi la necessità”.
3) “Che differenza c’è tra mafia, camorra, ‘ndrangheta e Sacra Corona Unita?”
L’ultima domanda a cui Paolo Borsellino trovò il tempo di rispondere riguardava la differenza tra le varie cosche mafiose che operavano (tanto allora quanto ancora adesso, seppur in minor modo) sul territorio italiano. “La mafia (Cosa Nostra) è un’organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente strutturata che si contraddistingue da ogni altra per la sua caratteristica di ‘territorialità’”, spiega Paolo Borsellino. “È suddivisa in ‘famiglie’, collegate (..) da una direzione comune (Cupola)”, ed il quale compito principale è di “esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, deve esercitare, legittimamente, lo Stato”.
Tale esercizio di potere, spiega Borsellino, avviene attraverso l’appropriazione “delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio principalmente con l’imposizione di tangenti”. In cambio, Cosa Nostra, fornisce “una serie di sevizi apparenti”, che sono tali perché “ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia”. Il senso di tale affermazione viene chiarito poco dopo, “il lavoro assicurato a taluni (pochi) [viene tolto] ad altri (molti)”. “Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (..) è risolto condizionando lo Stato dall’interno” attraverso le tristemente note “infiltrazioni negli organi pubblici” fini al “soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale”.