PAOLO JANNACCI: “I GIOVANI ARTISTI PENSANO SUBITO AL GUADAGNO: MANCA LA GAVETTA E LO STUDIO SULLA PAROLA”
Giovani con talento ma inebriati dal successo immediato e quindi alla lunga dimentichi del valore della parola e della melodia: questo il giudizio di Paolo Jannacci nei giorni in cui il Premio Tenco all’Ariston di Sanremo ha dedicato l’intera edizione proprio al padre Enzo Jannacci, scomparso 10 anni fa nella sua Milano. Nel colloquio con Daniele Priori su “Libero Quotidiano”, l’eclettico e amato figlio Paolo ripercorre la grandezza di un uomo e di un artista che seppe attrarre intere generazioni senza banalità demagogiche: «con le giovani generazioni il rischio, da ascoltatore e spettatore, è di rimanere deluso».
Secondo Paolo Jannacci i giovani artisti, spesso molto bravi, talentuosi e «dolcissimi», soffrono di una grande pecca: «si sono accorti che con la musica si può guadagnare in fretta. Fanno una ventina di brani mollando su quel particolare al quale invece tutti i cantautori dagli anni ‘60 ai ‘90 dedicavano attenzione estrema. Mi è capitato di stare due settimane dietro la scelta di una parola». Sebbene siano bravi a livello tecnico, anche per la ricerca musicale, poi rischiano sempre di «cadere nella sterilità». Per un artista che ha cominciato giovanissimo come lui grazie all’influenza del padre sulla sua crescita musicale, la sperimentazione durata anni e anni di gavetta ha portato il figlio di Jannacci ad essere oggi uno dei musicisti e compositori tra i più brillanti d’Italia: quando gli viene chiesto dove manchino invece i giovani artisti della Gen Z, Paolino lo dice senza mezzi termini. «Manca la gavetta di 20 anni, un periodo lunghissimo in cui può accadere di tutto e fa parte della costruzione di un artista».
JANNACCI, GABER E LA MILANO “DINAMICA”: IL RICORSO DI PAOLO JANNACCI
Per essere ancora più chiaro, Paolo Jannacci fa anche qualche esempio sulle banalità che spesso si odono nei brani trap/rap/pop che affollano le playlist delle piattaforme digitali: «anche la storia del duro che viene dalla strada. Basta, ha stancato. Serve una nuova dignità come quella che c’era negli anni ‘50 e ‘60 trasferita da nonni e bisnonni. Anche mio papà era povero. Magari aveva un solo vestito buono ma non lo andava a sbandierare mandando tutti a quel paese e facendo l’incazzato a tempo pieno».
Già, quel papà – Enzo Jannacci – che della vitalità e dell’anomalia aveva costruito un’intera carriera, umana e professionale: gli artisti di oggi spesso invece sembrano peccare per superficialità (nei testi e negli atteggiamenti), così come sulle melodie: «Fanno la filastrocca ed è finita lì. Ma questo dipende anche dal desiderio del pubblico. Se il livello di ascolto si esaurisce a 15 secondi, per certi versi, fanno bene alcuni ragazzi a fissarsi su dimensione sonora che non va oltre il minuto». Papà Enzo, racconta Paolo Jannacci a “Libero”, amava raccontare sé e la realtà con emozione e coraggio: un “valore” che alberga nella vitalità culturale e musicale milanese, «papà ha vissuto questa strana dinamicità» mista tra «input visivo, emozionale e dinamico». In questo senso, l’amicizia che legava Jannacci ad un altro grande milanese come Giorgio Gaber passa proprio dentro quella dinamicità geniale: «Giorgio per papà è stato come un fratello. La loro amicizia era nata da ragazzini, ed è stato uno di quei rapporti che li ha legati per tutta la vita. Giorgio è parte integrante di Milano. Ha vissuto la città nel migliore dei modi, amandola e soffrendola, come capita a noi milanesi».