Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo. L’ho ascoltata ieri mattina, perché, sempre per dirla in musica, se comprendete di cosa parlo, Paolo Rossi era un ragazzo come noi. Quando, nell’estate del 1982, diviene “el hombre del partido”, che per i giovanotti di oggi sta a “man of the match Fifa” o (più locale) “uomo partita Sky”, con i suoi sei gol in tre partite al Mundial di Spagna, Pablo non ha ancora 26 anni e io ne ho appena compiuti 25. Insomma, in quei caldi e spettacolari giorni tra giugno e luglio, io e lui siamo coetanei. Sono al mio primo Mondiale di calcio da giornalista, nella redazione del Giornale a Milano.
Non è facile spiegare che cosa rappresenta Pablito per tutti noi, per tutti quelli che nel 1982 hanno un’età per ricordare, per capire. Pablo è stato il ragazzo, l’ultimo, che c’era in tutti noi. Niente eguaglierà mai quel passaggio epocale. Non voglio fare della sociologia d’accatto e comunque, in questa affermazione, ho il supporto di monsignor Luigi Giussani: la vittoria della Nazionale del 1982 è stato il più vero, unico momento di unità di popolo dell’Italia moderna. Ci aggiungerei la vittoria di Ginettaccio Bartali al Tour del 1948 che riuscì ad acquetare anche i comunisti in rivolta per l’attentato a Togliatti. Leggenda? Quando la leggenda incontra la realtà, vince la leggenda.
Pablo era un ragazzo come noi, che uscivamo dagli anni 70 e non ne potevamo più di gente cattiva che ci diceva quanto l’Italia fosse un brutto posto, popolato da figuri sinistri (e ce n’erano, eh) da rovesciare con la rivoluzione. Bene, il rivoluzionario non è venuto fuori da un convegno fumoso o da un corteo berciante, è venuto fuori dal Vicenza, era un ragazzino mingherlino, un centravanti che ora gli allenatori schiferebbero perché faceva solo quello, il centravanti, non dava “profondità”, non “faceva salire la squadra”, non scalava, ripiegava, non partecipava alla manovra difensiva. Era un meraviglioso rapace, il compagno che la metteva sempre dentro e che sceglievi per primo quando si facevano le squadre sui campetti spelacchiati in periferia.
Il compagno che segnava a raffica, che, in area, si faceva sempre trovare dove arrivava il pallone. Il compagno che non se la tirava, però, che con il Mundial, il titolo di capocannoniere e il Pallone d’oro nello stesso anno (come lui solo Ronaldo il fenomeno), rimase sempre un ragazzo. Basta vedere le foto postate in questi istanti. Era sempre disponibile con tutti.
Pablo è stato la vera rivoluzione uscita dagli anni 70, l’unica realizzata. Una generazione di straordinari calciatori che si formarono con la chiusura delle frontiere dopo il disastroso Mondiale 1966 (quello dell’eliminazione subita dalla Corea del Nord a da un dentista che non era un dentista) che giocarono il mondiale più bello (1978) e vinsero quello più incredibile (1982). Era veramente uno come noi. Nel 2007 ad Arezzo, gli chiesero di presentare il mio romanzo “La Lunga” e lui venne, il libro letto e non solo sfogliato. Per lui era una cosa naturale, tranquilla. Per me no, per me fu un’emozione che a stento dominai. Ho un solo rimpianto, non avergli cantato o semplicemente detto che era come me, o io ero come lui.
Per un lungo meraviglioso istante, nel 1982, Pablo ci ha unito, me, lui, tutti. Dopo nulla è più stato simile. Non il 2006, ma neanche lontanamente. Non l’esperienza del covid, figuriamoci, con la sua finta prossimità. Pablo invece c’è riuscito, ci ha resi popolo per quei brevi meravigliosi giorni del Mundial di Spagna. Per questo, da allora, a noi che eravamo ragazzi come lui, ci scappa sempre di chiamarlo così, Mundial, anche se si gioca in Italia, Usa, Giappone o Brasile. Siempre Mundial e Pablo è vivo.